INCHIESTA
In inglese significherebbe «non posso», ma è in italiano che va letto: Cant sta per Centro accoglienza notturna transitoria. In strada Santa Margherita, una possibilità per chi crede di averle perse tutte: un letto e un tetto, una colazione e un pasto (pur se al sacco). Antidoti al freddo, alla fame e alla solitudine disperata. «La struttura è del Comune e interagiamo con la Caritas» spiega Emanuele Vecchione, della cooperativa Dolce, che gestisce il Cant. Ma le collaborazioni sono numerose. L'iniziativa «Libri viventi», ad esempio, è realizzata con il Montanara laboratorio democratico che, spiega Marta Corradi «con la Biblioteca sociale, al di là del prestito, da tempo cura l'idea dello stare insieme».
Già il nome «parmigiano» del dormitorio vuole rappresentare qualcosa di diverso. «Si chiama Enzo Sicuri - prosegue Vecchione -, una persona quanto mai lontana dalle istituzioni: la nostra sfida è trasformare il Cant in un posto che parli davvero di accoglienza. E quindi anche di ascolto». I Libri viventi (Dio solo sa quanto hanno dovuto impegnarsi gli operatori per far sì che gli ospiti vincessero timidezze e paure per alzare la copertina del silenzio) ne sono un esempio concreto. A sua volta Ettore Brianti parla di «ascolto, partecipazione e condivisione». Alla luce del boom degli sfratti per morosità, la presenza del neoassessore alle Politiche sociali assume un valore particolare. Brianti sottolinea l'urgenza di «cambiare la mentalità burocratica di chi ci sta accanto: il sociale ha bisogno di risposte veloci». E di tempi lenti per la lettura del libro che ogni «invisibile» porta dentro di sé.
Ibrahim «Il mio lungo cammino da una violenza all'altra»
Una larga cicatrice accanto al gomito sinistro. Il primo colpo, Ibrahim deve averlo parato con quel braccio; ma il secondo lo ha centrato in testa: nonostante i capelli corti e crespi se ne vedono ancora le tracce. E chissà quanti ne sono seguiti, lasciandogli segni ovunque sul corpo. Ibrahim è vivo perché gli Asma Boys, le squadracce di taglieggiatori libici, devono averlo creduto morto. Malik, invece, l’amico con il quale condivideva il tugurio a Tripoli, non si è più rialzato da terra.
Se Ibrahim è un libro, la sua pelle è la copertina. Ci si potrebbe aspettare un titolo disperato, e invece dalle fronde basse del pioppo sotto le quali racconta pende un foglio con la scritta Waka: sostantivo neutro, fino a quando non è accompagnato da un aggettivo. «Sta per walk in inglese maccheronico» sorride lui, lottando con una timidezza profonda. Cammino: lui si sente ancora in viaggio, anche dopo aver attraversato Africa, Mediterraneo e svariati inferni. Ancora non è arrivato. Ma chi di noi lo è? La nostra vita è un cammino e non sempre andiamo dove vorremmo. Ibrahim ha 29 anni, è nigeriano, dorme al Cant di strada Santa Margherita: non ha una casa perché non ha un lavoro, non ha un lavoro perché non ha i documenti.
Il permesso di soggiorno legato alla richiesta di asilo gli è scaduto per un problema burocratico di certo non dovuto a lui. Ma sono gli altri a dirlo: Ibrahim non fa polemiche. Si racconta e basta. Sottovoce (e un foglio-promemoria gli ricorda proprio di alzare il tono), cercando con calma le parole in un dizionario di certo meno scarno di quello sfoderato da chi presidia le nostre strade per spacciare, usando l’italiano solo per trattare di sostanze, prezzi e dosi.
La Nigeria, Ibrahim la lasciò nel 2011, dopo «la grande violenza seguita alle elezioni». Nel bagno di sangue perse i genitori e due sorelle. Lui, piastrellista, decise di raggiungere l’amico-collega Malik in Libia. Stavano divampando le Primavere arabe: Ibrahim era migrato da una violenza all’altra. Resistette cinque anni, fino all’ultimo assalto degli Asma Boys. «Fu allora che salii sul primo barcone. Eravamo in 500: nessuno sapeva nuotare. In balia di quell’abisso, che terrore». Quindi, lo sbarco a Lampedusa e poi in Sicilia. Da lì a Bologna e poi a Baganzola: due settimane, prima di essere affidato alla onlus San Cristoforo di don Cocconi a Parma. «Nel 2018 avevo trovato lavoro - racconta -, ma nel 2020, con la pandemia l'ho perso». Dopo un corso da saldatore con Forma Futuro, poté svolgere un tirocinio in un’azienda parmigiana. Finiti i sei mesi, gli avrebbero volentieri fatto firmare il contratto. Peccato che lui non ne avesse più il diritto: richiesta d’asilo scaduta. Parlare gli fa bene, lo fa sentire meno solo. «Il Ciac mi sta aiutando» sottolinea. Alla fine, Ibrahim stacca da un ramoscello del pioppo una barchetta di carta e te la porge. Lucky, è scritto sulla prua. «Tieni, che il cammino verso il tuo sogno sia fortunato. Il mio è di avere finalmente i documenti: con quelli potrei lavorare fin da subito».
rob.lon.
Michele
Il senzatetto della porta accanto in cerca di lavoro
Michele è lo sconosciuto che chissà quante volte ti ha sfiorato per strada, che d’istinto saluteresti, perché il suo volto amico ti ricorda di certo qualcuno: ancora di più quando parla, con la sua erre blesa da «ombra del Battistero», che ti fa domandare «dove l’ho già sentito?». La copertina è questa, ma le pagine del libro vivente Michele raccontano un’altra storia. Che potrebbe essere anche la nostra. Lui l'ha intitolata «Il prescelto»: non è chiaro con quanta ironia.
Il suo stato di bisogno viene da lontano, ma non nello spazio. Michele (il nome è di fantasia) nacque 56 anni fa in pieno Oltretorrente. L’infanzia, la trascorse con la mamma e quattro fratelli in una casa condivisa con i topi. Spazi affollati, ma con un grande vuoto: mancava il padre, uscito un giorno per non tornare più. Anche Michele sarebbe fuggito, ma da un collegio in montagna, dai metodi educativi piuttosto rudi. Meglio la fame a casa. E fu così fino a quando, a otto anni, non venne scelto come attore da una troupe venuta da Roma per girare un film su Padre Lino. «Mi pagavano 30mila lire al giorno e facevano mangiare me e mia mamma all’hotel Toscanini». Non sembrava vero, e in effetti il sogno durò solo un mese. Le riprese vennero interrotte non si sa bene perché, e il piccolo attore e i suoi tornarono a sfamarsi «grazie alla generosità dei fornai Giovanni e Bruno e di padre Rossi dell’Annunziata».
A 14 anni, Michele sarebbe dovuto andare a scuola all’istituto agrario, che allora era a Correggio. «Come potevo raggiungerlo? - allarga le braccia -. Fui preso come manovale da un’impresa di costruzioni». Presto scoprì di soffrire di vertigini. Niente ponteggi, niente lavoro, almeno nell’edilizia. Trovò un posto in fabbrica, e lo tenne fino a quando non dovette partire per la naia. Gli era stato promesso che alla fine del servizio militare sarebbe stato riassunto. Peccato che al ritorno la fabbrica non ci fosse più: fallita.
Così, Michele fece il facchino di notte per gli anni necessari a spezzarsi la schiena (è riconosciuto invalido al 55 per cento). Poi, si sedette a un volante. Per 25 anni corriere, fino a quando l’azienda non fallì a sua volta, dopo la morte dei titolari. Troppo giovane per la pensione, troppo vecchio per un nuovo lavoro. Difficile riciclarsi a questa età. Difficile resistere in casa con un fratello con il quale ci si trova spesso in conflitto.
Michele dovette andarsene. Privo di un reddito, se non quello ottenuto con qualche tirocinio, si trovò costretto a bussare alla porta del Cant di strada Santa Margherita. «Qui sono stato da giugno ad agosto - spiega -. Ci si può rimanere per otto settimane, poi bisogna trovarsi un’altra sistemazione». Per lui significò il ritorno a casa dal fratello, con il quale per ora sembra essersi rappacificato. Anche per lui il progetto di riscatto passa da Forma Futuro. «Sto facendo collezione di attestati - sorride -. Ne ho diversi, tra i quali uno in panificazione, un altro in pulizia, un altro come addetto al marketing e alle vendite. Sarei un perfetto scaffalista. Ogni prodotto ha il proprio spazio ideale». Perché non dovrebbe esserci finalmente un posto anche per lui?
rob.lon.
© Riproduzione riservata
Contenuto sponsorizzato da BCC Rivarolo Mantovano
Gazzetta di Parma Srl - P.I. 02361510346 - Codice SDI: M5UXCR1
© Gazzetta di Parma - Riproduzione riservata