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TRADIZIONI

I casari di una volta

I casari di una volta

di Lorenzo Sartorio

21 Novembre 2022, 03:01

È abbastanza recente la sconvolgente notizia che in Danimarca si stia producendo latte sintetico. Si si proprio sintetico, una roba dove le nostre care vecchie mucche non c’entrano proprio più. Non solo, ma oltre il latte… sintetico, si produrrebbero anche formaggi cremosi, ovviamente sintetici. Se la notizia, di per sé assai bizzarra, può sorprendere molte persone, per un padano, meglio ancora per un «pramzàn», suona come una bestemmia, un qualcosa di innaturale, dissacrante. Vomitevole. Anche perché, noi, con il latte e, a latte, siamo cresciuti e, col latte, quello vero, è stata creata una delle meraviglie del nostro sistema agroalimentare: «il parmigiano». E proprio, in onore a questo straordinario ed irripetibile miracolo del latte e dell’uomo, rendiamo un doveroso omaggio a chi, all’interno di autentiche officine del gusto, i caseifici, da secoli, crea il «parmigiano»: «al cazär».

L’«alväda» (sveglia) era alle quattro del mattino, a volte , anche alle tre. Comunque, quando il cascinaio («cazär») si alzava per andare nel «cazél» (caseificio), incrociava quasi sempre il vaccaro che si accingeva ad entrare nella stalla mentre in cielo brillava ancora nitidamente la «stella del bovaro» ed i campi erano sciabolati dall’ argentea luce della luna molte volte tonda «cme 'na formàja». La prima cosa che faceva il cascinaio era quella di accendere la caldaia, compito assegnato al giovane «sotcaldéra» il quale, nella fornacella, cominciava a bruciare fascine e legna per far alzare la temperatura che, se d’inverno era una cosa tutto sommato piacevole, d’estate, si tramutava in una vera e propria tortura. Fatta la «zòtta» (zuppa) per i maiali a base di siero di latte, «mèllga», orzo e crusca, si procedeva a sfamare i famelici suini i quali, non appena riconoscevano le ombre dei «casari» che ondeggiavano nel muro illuminato da fioche lampadine avvolte da ragnatele e polvere, cominciavano ad urlare come forsennati alzando al cielo non solo grida lancinanti come i dannati, ma anche quell’odore tipico che regna sovrano negli «stàbj» (porcilaie) rappresentando una costante delle essenze padane. Quindi, iniziava il sacro ed antico rito affidato al fuoco, alla saggezza dell'uomo e alla forza della natura che si identificava in quel miracolo chiamato «parmigiano-reggiano»: un prodigio tutto nostrano che inondava di profumi e di cose buone la campagna. Mentre il «sotcaldéra», deponendo con cura le fascine di legna preparava la caldaia al grande lavoro, il «casaro», usciva con il suo barroccio per andare a ritirare il latte nelle varie cascine che il vaccaro aveva già munto e versato in un «capirone» posto dinanzi alla stalla. Una volta giunto nel casello, il cascinaio iniziava il suo lavoro di cui era il solo attore e l’impareggiabile regista.

Un lavoro concepito con sacrale rispetto, frutto di lontani saperi e di vecchie tradizioni che la nostra gente dei campi si è tramandata nei secoli. Ma, ancora prima di creare il formaggio, «al cazär», doveva ricavare il burro ottenuto dalla grassa e rigogliosa panna del latte che, posta dentro la zangola, formava una voluttuosa crema gialla, in primavera, aromatizzata dai fieni ma che, in estate, era opportuno lavorare con il ghiaccio prelevato dalla vicina «giasära» (ghiacciaia) rigorosamente ricoperta di alberi e all’interno della quale era gelosamente custodita la neve stipata in inverno. Il creare formaggio è arte antichissima frutto di tradizioni e di ancestrali segreti come ben riporta l’interessantissimo volume «Il Parmigiano – Reggiano nella storia» di Mario Zannoni, Silva editore, realizzato sotto l’egida del Consorzio del Formaggio Parmigiano-Reggiano nel febbraio 2006.

Comunque, una delle fasi più delicate della «creazione» del «parmigiano» è la cagliata per il coagulo ottenuta proprio grazie al caglio : pasta formata dalle pellette di stomaco dei vitelli da latte stemperate con il sale. Altra fase importante dopo la cagliata è la «spinatura» effettuata con lo «spino», apposito attrezzo che serve a mescolare il latte ed a trasformalo in una massa più omogenea. Siccome per fare un buon prodotto, oltre l’esperienza del «casaro», occorre la «màn dal Sgnór» (l’aiuto del buon Dio), ecco perché, quando con la pala si tirava su la forma, su di essa si tracciava un segno di croce. Una liturgia un po’ insolita in ambienti dove, a volte, le imprecazioni, dopo aver rimbombato in quelle stanze dall’acustica assordante, si stemperavano nella brezza padana. Dopo aver avvolto la forma («maschio» se era un solo esemplare, «gemelle» se erano due) nella famosa pezza di lino, la si imprigionava nella «fascera», un sorta di armatura di legno. Quindi veniva posta sulla «spersora» (tavolone ligneo) dove il siero scivolava fino in fondo attraverso una scannellatura. Dopo altre fasi della complessa liturgia si ricavava (dai ritagli della forma) il «tosone» di cui erano particolarmente ghiotti i «putén» (in città), i «garzón» (nella bassa) i quali avevano sempre fame e denti buoni, ma più che altro erano puntualissimi, quando (solitamente al pomeriggio) veniva ritagliato il fragrante «tozón». Infine, ultimava la ritualità, l’immersione delle forme per la salamoia. Una forma di ieri pesava circa 30 chili e la cultura contadina di allora la voleva avvolta dalla «terra d’ombra», una speciale mistura (nera come caligine), composta da olio di lino e vinacce, tale da creare un miracoloso unguento con il quale si passava con uno straccio tutta la «formàja». Era sufficiente, d’ogni tanto, voltare la forma e strofinarla nuovamente con un po’ d’olio di lino per renderla lucida e nera come se fosse stata verniciata. Ma se le ciambelle non riescono sempre con il buco, anche le forme non erano tutte perfette ed allora entrava di scena il «battitore» il quale, munito di un martelletto di ferro, ma, soprattutto, dotato di un orecchio straordinario, era in grado di capire se all’interno dell’aulente miniera di latte fosse tutto regolare, oppure se qualcosa non andava. A volte, quando il diavolo ci metteva la coda, la forma si trasformava in «balón», cioè «scoppiava», creando guai seri al povero «casaro».

Ma la più bella soddisfazione per il cascinaio era quando giungeva il momento di tagliare una forma la quale, come minimo, doveva avere sulla sua crosta almeno 24 mesi. Ed allora, con tre panciuti coltelli a mandorla, uno conficcato al centro e gli altri due ai lati, in una sorta di «mattanza padana», si tagliava a metà la «formàja» che, già dalle prime crepe (se era veramente speciale e cioè, tanto per capirci, un «formàj da anolén» - formaggio da anolini - ) doveva sprigionare un profumo paradisiaco, mentre la crosta doveva «cantare» come un soprano.

Un simpatico casaro della nostra pedemontana, ogni volta che tagliava una sua forma, compiaciuto, esclamava: «sentì 'l mé génti la canta cme la Tebèldi». In questo caso il miracolo era davvero compiuto: l’abilità del casaro era stata premiata, il «sotcaldéra» aveva fatto il suo dovere, il latte si era dimostrato di ottima qualità , come perfetti erano stati tutti i riti della complessa liturgia, compreso lo scaramantico segno di croce e quella provvida «man» che, di Lassù, ogni «casaro» implorava anche se, molte volte, le sue imprecazioni, rimbombando tra i muri del caseificio, facevano tremare anche l’immagine del povero San Lucio, «protettore dei casari» al quale lo storico Giovanni Ballarini, con la sua proverbiale verve letteraria, dedicò un piacevolissimo e dotto articolo sulla Gazzetta.

Lorenzo Sartorio

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