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Quelle ghiotte vetrine delle salumerie di una volta

Quelle ghiotte vetrine delle salumerie di una volta

di Lorenzo Sartorio

28 Novembre 2022, 03:01

Già alla fine di novembre iniziavano a «nasär» il Natale, il periodo dell’anno in cui i salumieri si esprimevano al meglio agghindando a dovere le loro vetrine e stipando le scansie dei loro negozi di ogni ben di Dio al punto che, anche se non si entrava in quel sancta sanctorum di robe buone, anche transitandoci davanti, si avvertiva un profumo paradisiaco che stimolava l’appetito. E’ sufficiente, a questo proposito, fare un salto indietro di qualche anno fa ricordando la vetrina della Salumeria Pasini in Strada Repubblica dove il titolare, Gianni Pagani, la mamma Angiolina e la moglie Mariangela, con i primi di dicembre, allestivano la vetrina con raffinatissimi piatti e profumatissime mostarde provenienti da ogni parte d’Italia.

I salsamentari, e non solo nella nostra città, fin dai tempi antichi, furono una sorta di corporazione tanto erano abili e ferrati nella loro arte. In effetti, il tagliare a mano un prosciutto oppure una spalla cruda o cotta, è veramente arte. E’ necessario conoscere bene il salume, posizionarlo dalla parte giusta, conoscere eventuali nervature o parti molli e grasse, sapere affilare i coltelli che devono tagliare come rasoi, avere occhio e naso, rispettivamente, per giudicare il colore della fetta ed il profumo che emana. Per non parlare poi del «parmigiano» che un tempo non era selvaggiamente e tristemente «decapitato» con un filo di ferro come ora, ma veniva tagliato sapientemente con il panciuto coltello a mandorla dall’impugnatura di legno. Solo allora il salumiere, quando affondava la lama in quella forma avvolta dal nero della «terra d’ombra», sapeva se era speciale o meno. Specie sotto Natale, l’attenzione per il formaggio da anolini era altissima. Infatti, la responsabilità se il ripieno fosse riuscito più o meno gustoso, ricadeva proprio su quel personaggio con la vestaglia bianca che, dietro il bancone, affondando la lama del suo coltello nella forma, era il detentore delle fortune o della mala sorte di quelle «rezdóre» che si affidavano a lui per un «formàj da anolén» adeguato alla ricorrenza. I «salumér äd 'na vòlta» erano davvero degli artisti del taglio e del fiuto, anche se non mancava certamente sul bancone, sempre pulito ed ordinato, la monumentale «Berkel» rossa che, azionando una manovella, metteva in funzione una taglientissima lama dalla quale cadevano sul foglio di carta oleata aulenti fette di salume.

Giacchetta bianca (un tempo il cappellino non era obbligatorio), immancabile lapis appoggiato sull’orecchio per segnare i prezzi della merce sui pacchetti o sui bloc-notes, l’inseparabile osso di cavallo a portata di mano per forare prosciutti, coppe, fiocchetti onde annusarne l’aroma prima di «metterli a mano», il vecchio bottegaio incarnava l’arte del norcino parmigiano, di colui che aveva il compito delicatissimo ed importante di mettere in vetrina, trattare e vendere i tesori della nostra terra. Solitamente «al bodgär» d’un tempo era pure stagionatore della sua roba e, sotto il negozio, non mancava mai una profumata cantina la cui umidità rendeva abili formaggi e salumi impedendo che il caldo, o un benché minimo raggio di luce, ferissero aulenti forme, prosciutti, coppe e salami che penzolavano nel vuoto come altrettante stalattiti padane in antri scuri e tenebrosi nei quali Dante avrebbe sicuramente collocato il girone dei golosi. E per sapere se un salume, tipo una coppa, era stagionata al punto giusto come ci comportava? Uno dei principi della salumeria parmigiana, Mario Giovati, indimenticato titolare della storica ed omonima salumeria di Via Trento, a tale proposito, usava sentenziare: «cuand la bàla in-t-il còrdi l’é pronta da tajär».

Cortesi, premurosi, affabili, i salumieri, erano il più delle volte coadiuvati dalla moglie (anch’essa al banco o alla cassa), da un fedele commesso e da un garzone il quale, a bordo di una biciclettona con portabagagli anteriore e posteriore, recapitava i pacchi a domicilio. Un tempo i turni infrasettimanali di riposo non esistevano ed anche alla domenica mattina il negozio era aperto per offrire la possibilità alla clientela di avere il pane fresco. E se, nel corso dell’anno, le salumerie parmigiane svolgevano il loro compito ordinario, per Natale, raggiungevano la loro apoteosi emanando i magici profumi della ricorrenza più bella che provenivano da quei giganteschi mastelli di piccante mostarda di Cremona, dalle pile di spongate, panettoni, forme di formaggio tagliate in bella vista. Ed ancora: tutte le qualità di salumi esposti in maniera artistica, confezioni di funghi secchi, grosse scatole di latta traboccanti di tonno e ventresca che nuotavano nell’olio, di anguille marinate, i pesi marinati nell’aceto, i famosi «pèss putàna», immancabili nelle tavole per la cena della Vigilia con al «marlùss fritt».

Infine, la conserva di pomodoro che profumava di estate, sottaceti, acciughe sotto sale e sott’olio dalla fragranza marina, porcini sott’olio in terrine di porcellana, olive nere e verdi, formaggi teneri, cotechini e zamponi. Non poteva mancare la tradizionale bacinella posta fuori dal negozio dentro la quale galleggiava il merluzzo mentre gli stoccafissi, ben ordinati in una cassetta di legno, parevano piccole mummie egizie.

Il salumiere, se era abilissimo nel tagliare a mano i salumi sciabolando come uno spadaccino di Toledo certi prosciutti il cui profumo si avvertiva anche fuori dal negozio, era altrettanto abile e svelto a fare i conti con quella matita copiativa che, funzionando a saliva, arabescava di numeri sacchetti e biglietti volanti. Era specialista nel taglio, nell’annusare la merce, nel capire il cliente, nello scegliere la merce giusta e nel servire la gente in modo garbato e cortese, non mancando mai di far fare il rituale assaggio di grana o salume alla «rezdóra» prima di accingersi a tagliare il prodotto. Una volta ricevuto l’assenso ed un sorriso, il bottegaio, iniziava il rito del taglio e, dopo avere pesato la merce, la impacchettava con una precisione ed una sveltezza davvero straordinarie. Nel banco, oltre ai generi alimentari che non sbaglieremmo definire aristocratici, figuravano anche quelli più umili come la mortadella, la pancetta, il ripieno di amaretti per fare i tortelli dolci, le vaschette con il «grass pìsst», i «culetti» di salame e di coppa ed i «gambetti» di prosciutto.

Tutta roba che per le feste di Natale veniva accantonata per fare posto alle leccornie più prelibate anche se il vecchio salumiere provava eguale soddisfazione, sia a tagliare uno stagionato prosciutto per la gentile signora, che nel fare un panino con la mortadella (il «culatello dei muratori») per il manovale. Faceva parte del suo mestiere, quindi, oltre vendere prodotti di qualità, doveva anche e soprattutto saper vendere la sua simpatia e quella disponibilità che lo rendevano gradevole alla gente. Proprio come la roba che aveva in mostra nel suo bancone sempre tirato a lucido.

Lorenzo Sartorio

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