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Il docufilm di Roberto Azzali

"Capanón", il racconto di un'epoca con la voce (e i pudori) dei protagonisti

Capanón», il racconto di un'epoca con la voce (e i pudori) dei protagonisti

di Giovanna Pavesi

30 Novembre 2022, 03:01

«I protagonisti avevano voglia di raccontarsi, ma nessuno glielo aveva mai chiesto». Per restituire le voci dei Capannoni alla città, nel vero senso della parola, Roberto Azzali ha impiegato 15 anni di ricerca, tanto studio e un minuzioso lavoro di cura delle fonti. Per il suo docufilm, prodotto dal Centro Studi Movimenti (e in vendita ora nelle librerie di Parma), «Capanón», presentato lunedì sera all’affollatissima sala del Cinema Astra, l’autore ha però alla fine compiuto una riconsegna necessaria (e commovente) di un ritratto civile rimasto a lungo ai margini, della storia e della città. Anche se da parte dei testimoni c’è sempre stata una sorta di pudore e di vergogna per le condizioni in cui, per anni, sono stati costretti a vivere, simbolo di emarginazione e, solo dopo, molto più tardi, di orgoglio.

«Sapevo che quella storia era molto bella ed era un peccato non raccontarla – ha detto il regista -. Dopo una ricerca in biblioteca, mi sono accorto che sui Capannoni non c’era nulla. Quindi, ho atteso la fine della ricerca storica del Centro Studi Movimenti e del Dipartimento di Ingegneria e Architettura dell’Università di Parma per avere un riscontro storico delle dichiarazioni che mi facevano i protagonisti».

In sala, nel documentario di Azzali, sono stati tanti a riconoscere quei volti e quei luoghi che, per decenni, hanno spaccato la città e i suoi abitanti. La mostra «I Capannoni a Parma. Storie di persone e di città», allestita in primavera a Palazzo del Governatore e curata dalla storica Margherita Becchetti e dall’architetto Paolo Giandebiaggi, e l’omonimo volume hanno, in parte, restituito una dignità necessaria a chi, a lungo, si è sentito identificato con quella collocazione abitativa, che ha attraversato non solo la quotidianità dei suoi abitanti, ma anche la loro interiorità.

«È stata una vicenda volutamente dimenticata da parte delle istituzioni democratiche, perché dalla fine della guerra al momento in cui sono stati abbattuti gli ultimi capannoni sono passati 10, 15 e 25 anni (il Castelletto è stato demolito nel 1969, 24 anni dopo la fine della guerra) – osserva Azzali -. Forse il motivo è legato alla poca volontà di esporre pubblicamente questa mancanza. Da parte dei Capannoni c’è sempre stata molta vergogna e nessuno aveva mai affrontato l’argomento».

Le dichiarazioni, che il regista definisce «molto spontanee», ritraggono il volto di una città che non esiste più, ma che ha conservato, quasi sottotraccia, quell’identità ribelle e indomita. «Questo documentario racconta una testimonianza e aggiunge qualcosa in più rispetto a quanto si è visto nella mostra, perché aggiunge la voce viva dei capannoni e di chi ha vissuto quell’esperienza, un elemento preziosissimo e straordinario – ha detto Ilaria La Fata, durante la presentazione -. Azzali ha saputo raccogliere le voci vive di chi aveva tenuto le proprie esperienze private, nel chiuso delle proprie famiglie, quasi alimentando una storia parallela. Il termine capannone, diventato dispregiativo, viene portato con orgoglio da chi ha vissuto in quelle case e dai loro familiari».

Giovanna Pavesi

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