L'anniversario
La saracinesca era abbassata: così almeno racconta la leggenda. Faceva freddo e i signori con cappotto e cappello arrivavano alla rinfusa, con fare circospetto. Bussavano uno a uno, stando ben accorti a non farsi notare: la saracinesca veniva alzata, un cenno di intesa, poi uno sguardo fuori. E subito veniva richiusa. Così, una, due, dieci volte. In pieno centro, a pochi passi dall'Università, un giorno di febbraio. Che nessuno doveva immaginare: né tanto meno sapere.
Che facevano quei notabili arrivati alla spicciolata? Professionisti, giornalisti, facce note: che segreto custodivano? Erano lì per una sorta di riunione carbonara che avrebbe cambiato il destino della città? Per niente. Ma a loro modo entrarono - sì, di nascosto e alla chetichella - nella storia del cinema. E non solo in quella del glorioso Lux, dove quel giorno, preceduto da un'attesa spasmodica, alimentata da chiacchiere, voci e carte bollate, alcuni fortunati videro - in prima assoluta per l'allora borghese e inquieta Parma - il film di cui parlavano tutti: «Ultimo tango a Parigi». Quasi una proiezione clandestina, in religioso silenzio e tra una sigaretta dopo l'altra: col fumo che balenava nella luce del proiettore salendo fino al soffitto, confondendosi con le immagini che, sinuose, danzavano sullo schermo. Altri tempi: anzi, 50 anni fa.
Mezzo secolo - oggi - da «Ultimo tango»: da quella primissima proiezione italiana al Kursaal di Porretta Terme. Qui, nella piccola capitale, dove già si faceva un gran parlare dell'ultima impresa dell'appena 31enne figlio del poeta, il «film scandalo» di Bernardo Bertolucci, già con lo stigma addosso del perseguitato, dello scomunicato, uscirà solo due mesi dopo, il 17 febbraio, al cinema Jolly: primo spettacolo alle 13,30, l'ultimo, addirittura, «data l'eccezionalità di questo avvenimento cinematografico e la grande attesa del pubblico» (si legge sul flano pubblicitario uscito quel giorno sulla «Gazzetta»), a mezzanotte e venti. Con buona pace degli «Avatar» a venire. Dal Jolly al Lux, poi al Nuovo Trento: solo a Parma restò in sala 47 giorni. Un successo, non solo qui, senza precedenti.
Del «Tango», del suo mito maledetto, delle mille polemiche che ancora, in modo spesso palesemente assurdo, lo accompagnano, si è , detto tutto, forse troppo: ma è indubbio che questo film resta un unicum - un caso a parte, di portata eccezionale - non solo nella storia del cinema, ma anche di quella del costume. E della morale. Perché a nessuno può sfuggire che «Ultimo tango a Parigi» sia - in se stesso - un oggetto politico, sociale, qualcosa che va molto al di là dello schermo per occupare un posto in prima fila nella cronaca (e nello studio) di un'epoca, nelle dinamiche (anche sorprendenti) di un tempo non così breve. E comunque non trascorso invano.
Lo choc, la provocazione, il rogo: condannato a bruciare come una strega nel nuovo (e vecchio) medioevo. Disturbante e messo all'indice, decadente e «spaventoso»: accusato di apologia della pornografia da giudici che - tre lustri dopo - se dio vuole lo sdoganeranno come opera d'arte. E' folle davvero la storia del «Tango»: poco o per niente amato da Godard e Pasolini (i padri putativi di Bernardo, mentre quello vero, Attilio, lo difese), celebrato da critici-guru come Pauline Kael che lo definì una «pietra miliare», osteggiato dai benpensanti, minacciato dai censori, adorato dalle masse. La vicenda, mai in realtà davvero conclusa - come se le braci di quell'incendio fossero sempre roventi, pronte a riaccendere, da un momento all'altro, il fuoco -, così come il successo mondiale del film, trasformarono Bertolucci in una star e lo fecero sentire capace e in grado di qualsiasi cosa: da lì il sogno «monstre» di «Novecento». Ma di certo, l'iter anche grottesco di «Ultimo tango», più volte processato e condannato, non lasciò indifferente il regista parmigiano. Due cose in particolare - è storia - lo ferirono: la privazione dei diritti civili, una sentenza che non gli permise nemmeno di votare (circostanza che lo fece infuriare), e le recenti accuse, gonfiate a dismisura, del movimento #MeToo, che non poco amareggiarono (la Schneider in realtà prima di morire «assolse» il film...) il maestro.
Ma faremmo un torto all'intelligenza dello spettatore medio (qualunque cosa essa significhi) se pensassimo davvero di ridurre un'opera come «Ultimo tango a Parigi» solo ed esclusivamente alla famosa scena del burro. C'è anche quella, ma quel che resta è ben altro: un romanticismo disperato, un incontro senza nomi, la fotografia dalle tinte arancio di Storaro, il sax di Gato Barbieri, Brando col cappotto cammello...
Non ho mai pensato, onestamente, che «Ultimo tango a Parigi» sia il miglior film di Bernardo Bertolucci, anche se forse, per certi versi, è il più importante: ma soprattutto non ho mai pensato che fosse un film osceno. Non mi è mai passato dall'anticamera del cervello. Piuttosto credo che non sia nemmeno un film sul sesso, sulla solitudine, sul corpo, sulle illusioni di un'epoca o sulla vita. Ma che sia un film sulla morte. Dove tutto parla di morte. E' la sensazione che ho avuto la prima volta che l'ho visto: e che mi continuo a perseguitare. La morte, forse prematura ma inevitabile, di una generazione che nel sogno di tutte le rivoluzioni aveva ucciso i padri ma non aveva lasciato figli. Né tracce, né ricordi, né insegnamenti. A differenza del cinema di Bernardo Bertolucci che, al di là degli anniversari, ogni giorno ci dà prova della sua presenza, della sua - vivace e scomoda - contemporaneità.
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