C'era una volta
I riti del freddo nelle nostre campagne comportavano anche momenti cruenti. Si trattava di riti sacrificali come l'uccisione del maiale e la caccia assassina, ovviamente per motivi fame, a quei poveri volatili che, spaesati dal ghiaccio e dalla neve, per poche briciole di pane incappavano nelle rudimentali trappole tese dai bracconieri. Le bacche del vischio, essendo piene di mucillagine collosa, rappresentavano un’arma letale per cacciare i passeri durante l’inverno. Infatti i cacciatori di frodo, i cosiddetti «palmoner», con le bacche del vischio mischiate al letame confezionavano una colla potentissima che, spalmata sulle trappole, consentiva di catturare quei minuscoli pennuti che, in inverno, ricamavano i nostri cieli plumbei : pettirossi, picchi, passeri, merli, cinciarelle, cinciallegre, capinere, scriccioli («ozlèn dal frèdd» o «sibibì»).
Dopo l'Epifania con i falò della «nòta äd fazagna» (5 gennaio), dopo Sant' Ilario (13 gennaio), patrono di Parma e «mercante da neve», San Antonio Abate («Sant'Antònni dal gozén», 17 gennaio) con la benedizione delle stalle, «dìll stabjj» ( porcilaie) e dei pollai, ma comunque prima dei terribili «Giorni della Merla» (29-30-31 gennaio) che precedono di un niente San Biagio (3 febbraio) ultimo «mercante da neve» («San Bjäz al gh' à la néva sòtta ‘l näz»), le nostre campagne si animavano per quella che l ‘indimeticato studioso di tradizioni popolari Enrico Dall'Olio chiamava «l'antica festa crudele». Poiché., di vera e propria festa si trattava, ma che, allo stesso tempo, celava la crudeltà dell'uccisione del maiale. Ebbene, proprio nelle gelide mattine di gennaio, prima che la stagione, con febbraio, si voltasse al clima più tiepido con le incursioni del «marèn», nelle nostre campagne, si perpetuava l'antico rito dell'uccisione dal maiale che nel parmense, tradizionalmente, si chiama «gozén» da vivo e «nimäl» da morto. Nelle aie, fin dalle prime ore dell’alba, tutto era pronto sotto il portico per questo ancestrale sacrificio le cui origini si perdono nella notte dei tempi. Però ogni «masén» (e cioè ogni norcino) aveva il proprio segreto che gli era stato tramandato dai suoi vecchi. Ricordi ormai sfumati nel tempo in quanto, oggi, l'uccisione del maiale, secondo gli antichi riti agresti, non esiste più salvo in rarissimi casi dove i contadini possono correre il rischio di essere assaliti da commando di animalisti. Ma facciamo un salto indietro nel tempo e proviamo ad immaginare cosa succedeva nelle aie padane nelle gelide mattine di gennaio come accadde di assistere al cronista parecchi anni fa nelle campagne di Vicomero nell’aia dell’indimenticato Liseo Galli.
Ad orari antelucani massicce ombre intabarrate, a cavallo di arrugginite biciclette, fendevano la nebbia che avvolgeva gli argini. Zufolando arie verdiane, i fantasmi padani dal volto rugoso e imperlato di brina, scendevano dalle loro bici e , come congiurati, si avviavano verso la corte. Le finestre della casa colonica sbadigliavano al primo mattino e quelle luci soffuse tra la nebbia parevano lampare in un mare «äd fumära». I due omaccioni, grugnendo tra di loro frasi in dialetto, toltosi il tabarro, cominciavano ad allestire la loro rudimentale «sala operatoria» con gli attrezzi del mestiere, tra i quali, certi coltelli da cerusici medievali da far paura. Intanto l’aia si movimentava sempre più di uno strano andirivieni di donne, uomini, vecchi e bambini. Nonostante fosse mattina di buon’ora era ancora notte fonda e la campagna era immersa in un profondo sonno. Solo i cani, ululando da un casolare all'altro, unitamente al «chicchirichì» dei galli, annunciavano il giorno ormai imminente.
Una volta preparato il tavolaccio, acceso il «fogón» per fare i ciccioli ed addobbato il portico con gli attrezzi di rito, tra i quali una grossa scala a pioli in legno ed un mastello («sojón») colmo d'acqua bollente, il «masèn», a passo spedito, si dirigeva verso la «porcilaia». Scene da film di Ermanno Olmi o Pupi Avati. La lotta con il povero animale durava pochi minuti. Dopo che un compare lo aveva afferrato affinchè non si divincolasse più di tanto, l’altro gli conficcava nel cuore un appuntito punteruolo («coradòr»). Un grido lancinante si perdeva nella nebbia. Quindi la bestia era trascinata fuori, immediatamente veniva raccolto il sangue con il quale si cucinavano le torte con le cipolle: «al sangonàs». Il «nimäl», solenne trofeo padano, issato sulla scala a pioli ed irrorato di acqua bollente, veniva rasato.
Ed allora si iniziava a sezionarlo per ottenere quegli insaccati che, freschi e fumanti, venivano adagiati sul tavolo in candide tovaglie bianche («boràs»). Da lì finiva la leggenda ed iniziava la storia vera del «far su» salami, cotechini, «preti». Oppure creare culatelli, prosciutti, coppe, spalle, fiocchetti, ciccioli, «strolghini» e tutto ciò che questa divina bestia ci può donare. Ad esempio nella bassa parmense, al confine con il cremonese ed il mantovano, la tradizione vuole che l’impasto del salame sia aromatizzato da vino bianco nel quale è stato fatto macerare per giorni l’aglio, quindi il salame prende un appetitoso sapore agliato.
Cosa un po' diversa per l'impasto del cotechino dove ogni norcino aveva la propria segretissima ricetta che si dipanava tra dosi di vino, droghe, macinatura della carne e quel pizzico di sapienza antica che faceva la differenza.
L’aglio, ad esempio, se viene utilizzato nelle terre rivierasche del Po, non compare nei salami confezionati in altre zone.
E, se in certe parti della provincia, il budello viene lavato con l’aceto, in altre, per espletare questa importante operazione, si usa sempre il vino.
Comunque era indispensabile fare una pasta da salame eccellente che, una volta inserita nel budello, dovesse, nel tempo, trasformarsi in un delizioso insaccato.
La «rezdóra», intanto, di nascosto dallo sguardo severo del marito (solitamente mangiapreti), in modo scaramantico, aspergeva il vino a forma di croce sull’impasto del salame proprio per scongiurare che in seguito i salami si bucassero o «prendessero la mosca» e quindi il rancido («l’aràns»). Mentre la pasta di salame avanzata veniva fatta friggere con il vino bianco in compagnia di altre frattaglie e gustata nella solenne cena consumata al termine dell' uccisione del maiale.
Altra tradizione, tra l’esoterico ed il superstizioso, voleva che l’aglio messo a macerare fosse quello cavato nella notte solstiziale della «Rozäda äd San Zvan (il 23 giugno). In questo caso i salami si sarebbero mantenuti sani, turgidi, aulenti e gustosi. E, dopo essere stati a penzoloni nelle camere da letto attaccati ai chiodi delle travi per la rituale asciugatura, venivano poi riposti gelosamente nelle umide cantine tra muffe, ragnatele ed il buio più completo per il fatto che, anche una sottile lama di luce, avrebbe potuto ferire il prelibato insaccato il quale, debitamente stagionato, veniva poi affettato in tavola nei giorni canonici per simboleggiare il vanto di ogni «rezdor». Un piacevole aneddoto riguardante appunto l’«antica festa crudele» ebbe come protagonista, tanti anni fa, un norcino che risiedeva nelle campagne del collecchiese il quale che fu chiamato dall’ illustre avvocato Baldini di Pontremoli ad uccidere uno dei maiali dei suoi poderi.
Il nostro norcino, alla mattina di buon’ora, salì sul treno alla volta di Pontremoli. Qui, giunto, fu accolto con la proverbiale ospitalità dagli amici d’oltre Cisa. Si mise subito al lavoro tra il compiacimento dei presenti vedendo all’opera questo docente dell’«università della norcineria» com’era considerata la nostra zona.
Terminate le varie operazioni della maialatura, al norcino, fu offerto un lauto pranzo impreziosito da vini locali i quali, non sono come i nostri, frizzanti e briosi e, che, anche se bevuti abbondantemente, possono favorire solo un’ abbondante diuresi. I vini della Terra di Luni sono calmi, sembrano inoffensivi ma, data la loro alta gradazione, quando vengono sorseggiati, specialmente freschi, vanno giù che è un piacere per poi creare qualche problema. Cosi accadde al nostro buon «masén» il quale, terminato il pranzo che proseguì fino al tardo pomeriggio, fu accompagnato, perchè un po' barcollante, alla stazione di Pontremoli dall’illustre avvocato che lo fece letteralmente salire sul treno raccomandando al ferroviere di avvisare il passeggero quando il treno si fosse fermato alla stazione di Collecchio. «Sa, questo brav’uomo - disse l’avvocato rivolto al capo-treno - è un po' assopito. Oggi ha lavorato tanto!!!».
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