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Amarcord

Febbre e tosse: la «Catramina» e gli altri farmaci di una volta

Febbre e tosse: la «Catramina» e gli altri farmaci di una volta

di Lorenzo Sartorio

16 Gennaio 2023, 03:01

Gennaio e febbraio tedofori di influenze e acciacchi vari. Epidemie e virus, ci sono sempre stati, purtroppo ci sono e, molto probabilmente, ci saranno anche in futuro con la speranza che la scienza medica possa attutirne i devastanti effetti con farmaci e vaccini sempre più all’avanguardia. I nostri nonni, quando si ammalavano, il medico, lo chiamavano al capezzale solo per motivi gravi e gravissimi, in quanto la gente si arrangiava per proprio conto, a volte rischiando la pelle, assumendo pozioni, misture e altre diavolerie frutto delle antiche tradizioni popolari.

Proprio nei casi più ostinati entravano in farmacia dove potevano acquistare farmaci che, anche grazie alla loro confezione, avevano un aspetto più umano di quelli di adesso. Per taluni acciacchi, quali storte, vermi, «Fuoco di Sant’ Antonio», si ricorreva invece alle segnature ad opera delle «medgón’ni» che, a detta degli ormai pochi sopravvissuti, risultavano davvero efficaci. Erano i tempi dei salassi effettuati con le sanguisughe («sanguètti») per chi era affetto da «sànngov gross» (poliglobulia e cioè aumento dei globuli rossi nel sangue), delle potenti purghe, delle «pappine» e dei rimedi offerti dalle erbe per curare le varie malattie che, se ne non erano gravi, potevano anche passare. Mentre invece, se erano cose serie, portavano al creatore. Anticamente ci si affidava proprio alle erbe per curare certi mali. E, se la cipolla era la regina della cucina, le tradizioni popolari la consigliavano anche come ottimo diuretico «'na sigòlla cruda al dì e alora un fìzich san al pissa cme 'n can».

In caso di epidemie, come se non ne mangiassero a sufficienza, i vecchi, tenevano in bocca uno spicchio d’aglio perché era ritenuto un potente disinfettante, ovviamente a discapito dell’alito («con l’aj biassè al fardór l'é masè»). Ma, una volta, a queste cose, la gente non badava. Invece, le foglie «ädla róza salvàdga» («rosa canina») erano usate dalle guaritrici per segnare le storte, le piaghe e l’erisipela. Le bacche rosse della «rosa selvatica» («petlénnghi») che, in autunno ravvivano le siepi oramai spoglie, molto volgarmente in gergo popolare chiamate «tapacul», venivano masticate in caso di dissenteria, perché si pensava fossero astringenti. «Nella farmacia familiare - come scrive Maria Castelli Zanzucchi nel suo volume ''Farmacopea Popolare'' - la rosa canina era una pianta indispensabile. I frutti pestati o in decozione venivano bevuti come diuretico e come antidiarroico, specie dai lattanti e dalle persone anziane. L’infuso di ''petlénnghi'', ricchissimo di vitamina C, costituiva una bevanda altamente rinfrescante e utile nelle malattie primaverili». Quando un bambino si ammalava di influenza o buscava un sonoro raffreddore (in quanto le case non erano riscaldate, i ragazzi giocavano prevalentemente all’aria aperta, in strada, nella corte o sotto il portico ruzzolando nella neve, oppure correndo sotto l’acqua) i rimedi erano spartani: letto, latte bollente con miele, brodo caldo, le terribili «pappine» («impjàstor») e, per concludere, chissà perché, sempre e comunque la purga, che consisteva, solitamente, in una robusta dose di olio di ricino. Il «rezdór», quando tosse e raffreddore facevano sul serio, difficilmente, varcava le porte della farmacia per acquistare le medicine. Era molto più facile che con l’amico farmacista facesse bisboccia all’osteria ma, di farmaci, nemmeno l’ombra.

Quando gli occhi gli colavano e un autentico «cassone» di catarro era trattenuto dentro lo stomaco, il «rezdór» usava farsi fare dalla «rezdóra» un «brulè» con vino gagliardo, chiodi di garofano, cannella e zucchero. Oppure, prima di andare a letto, ingeriva una tazzona di latte bollente dove versava un bicchierino di cognac o grappa il tutto edulcorato con il miele. Comunque, per le forti costipazioni, un valido suggerimento era contenuto nelle parole di un antico e saggio adagio popolare: «p'ral fardór, a gh' vól dal decot äd linsol» (per il raffreddore occorrono «decotti di lenzuola», ossia è consigliabile starsene a letto).

Comunque sia, anche in cucina, per quelle giornate di raffreddamenti, si portava in tavola roba calda: zuppe, brodini vari macchiati di vino rosso prima di iniziare il pranzo, e l’immancabile «panadéla» per cena, ossia pane secco imbibito in brodo con una spolverata di parmigiano e un cucchiaio d’olio. Ovviamente, le ultime cucchiaiate di questa «pappetta», erano anch’esse accompagnate da vino rosso. Ma anche le «medicone» venivano in aiuto con i loro empirici saperi alle epidemie influenzali attraverso i rimedi che offriva madre natura e cioè quei «miracolosi» infusi di quelle erbe che potevano, in qualche modo, sostituire i moderni antibiotici.

Quali erano, allora, le «erbe dell’influenza»? Con i semi di lino si preparavano le famose «pappine» o «cataplasmi» («impjàstor»). Mescolando i semi di lino con l’acqua scaldata sul fuoco del camino si dava origine ad una massa omogenea che non doveva prevedere grumi perché, questi ultimi, avrebbero portato rogna. La maleodorante lava incandescente ricavata veniva raccolta su un panno ripiegato in quattro parti e quindi scaraventata sul torace, sulla gola e sugli arti di quei poveri disgraziati che venivano sottoposti ad una simile tortura. Un'altra erba che le «donne dei segni» consigliavano come antipiretico era l’«elicriso» («vióla d’òra»). Addirittura, le cronache affermano che questa erba, unitamente ad aglio e timo, fu utilizzata durante l’epidemia di «Spagnola» che colpì agli inizi del Novecento anche il parmense.

Decotti di foglie di «polmonaria» («èrba da rosp») venivano utilizzati nelle malattie dell’apparato respiratorio. Infine il «timo» era considerato «l’antibiotico dei poveri» e quindi adatto per combattere raffreddori, tossi e febbri. Macerato in olio si ricavava un unguento che alleviava i dolori articolari ed i reumatismi. Anche la bacche di «ginepro» («znévor»), essiccate e amalgamate con il miele, si tramutavano in pillole per combattere la bronchite. Forse per sdrammatizzare la paura di malattie ed epidemie e per esorcizzare il timore del male i nostri nonni avevano coniato un detto che poteva rappresentare la panacea di tutti i mali: «con al sudór di cantonér, la cosiénsa di molinär, il lägormi di prét a gh’ véna fóra ‘n unguént ch’al guarissa tutt’ il malatjj».

Le tradizioni popolari, alleandosi con il nostro dialetto, ci hanno lasciato in eredità un vocabolario medico che un tempo faceva parte del linguaggio comune che echeggiava nei nostri borghi. Un «spetàcol»! «Neglénsa» (Decadimento fisico, rifiuto alla vita), «Mäl dal simjòt» (Rachitismo dei bambini), «Mäl dal scrolén» (Morbo di Parkinson), «Sigòlla» (Colpo apoplettico, malore improvviso), «Nòna» (Sonnolenza acuta, astenia), «Mäl sutil» (Tubercolosi), «Stòmmogh imbalonè» (Indigestione), «Intabaramént» (Sindrome influenzale), «Atach äd schibia-Fis'cion» (Dissenteria), «Stòmmogh buz» ( Ulcera), «La pendicite» (Appendice infiammata), «Pisaróla» (Prostata), «Fógh äd Sant’Antònni» (Herpes zoster), «Zabarluzära» (Strabismo), «Mäl Cadù» (Epilessia), «Spiga in-t-l’orèccia» (Vecchiaia. Da qui il detto «cuand l’orèccia la fa la spiga (peli) ciapa il bicér e läsa stär la f..a»), «Sangov gross» (Poliglobulia-aumento globuli rossi nel sangue), «Gamba sifolén’na» (Claudicante), «Vóza in cantén’na» (Irritazione della gola), «Fiè lovén» (Alitosi), «Balón» (Varicocele), «Régoli» (Mestruazioni), «Morbén» (Irrequietezza), «La diabete» (Diabete coniugato al femminile ), «Travjäda» (Emesi -vomito), «Spurén’na» (Prurito), «Mäl ädla préda» (Calcoli renali).

Lorenzo Sartorio

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