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MARENE VIVE A PARMA

La figlia di Ciaccio Montalto: «Mio padre dimenticato: troppi punti oscuri, vorrei incontrare Messina Denaro»

La figlia di  Ciaccio Montalto: «Mio padre  dimenticato: troppi punti oscuri, vorrei incontrare Messina Denaro»

di Georgia Azzali

18 Gennaio 2023, 03:01

Un soffio di voce per dire cose dirompenti. Quarant’anni di lutto dopo un assassinio vigliacco ti modellano i pensieri e le emozioni, anche se tenti di continuare a vivere con passione. «L’arresto di Messina Denaro mi ha scombussolato, anche perché avevo letto dei documenti in cui si ipotizzava che potesse essere la sua mano quella che ha colpito mio padre. Vorrei incontrarlo e parlargli, perché mi spiegasse tante cose che sono rimaste oscure e che forse non emergeranno mai».

Maria Irene - Marene per tutti - è una sopravvissuta. Sopravvissuta alla morte di un padre di cui è molto orgogliosa, ma anche al declino imperdonabile della sua memoria. È la figlia di Giangiacomo Ciaccio Montalto, sostituto procuratore a Trapani, ammazzato dagli uomini di Totò Riina quando lei aveva 12 anni: gli spararono nella notte tra il 24 e il 25 gennaio 1983 a pochi passi dalla casa di campagna di Valderice. E sei mesi dopo Marene, con la madre Marisa e le sorelle Elena e Silvia, due bambine di 9 e 4 anni, lasciò la Sicilia per venire a Parma, dove fu poi assunta come impiegata al Maggiore.

La cattura di Matteo Messina Denaro, ai vertici di Cosa Nostra ma soprattutto capo indiscusso della mafia trapanese, l’ha riportata al dramma della sua vita. Una perfida macchina del tempo che ti catapulta indietro e fa riemergere l’amarezza che cerchi faticosamente di tenere a bada. Come era successo nel novembre del 2017, quando Riina era morto al Maggiore e la sua salma era lì, a pochi passi dall’ufficio di Marene. Il capo dei capi e il boss Mariano Agate sono stati condannati all’ergastolo per l’omicidio di suo padre dopo quindici anni di depistaggi e silenzi. Buio pesto, però, sugli esecutori materiali. Allora Messina Denaro aveva 20 anni, ma era il figlio di Ciccio, capomafia di Trapani, ed era già uno dei pupilli del padrino di Cosa Nostra. «Non in via formale, ma attraverso il carcere, già con Riina avevo provato a chiedere se era possibile incontrarlo, però ho capito subito che era un’utopia. Credo che anche con Messina Denaro finirà allo stesso modo. Certo, resta sempre la speranza che lui possa convincersi a collaborare, ma sono piuttosto pessimista. Ha un codice da rispettare e interessi troppo importanti da salvaguardare».

La rinuncia alla verità è una fatica quotidiana. Un esercizio pesantissimo che va avanti da quel 1983. Per prima l’aveva dovuto affrontare sua madre Marisa, insegnante di italiano e storia all’istituto Melloni, scomparsa nel 2011. Dopo la morte del marito si era accorta di non avere accanto nessuno a Trapani: un puzzo nauseabondo di sospetti e continue minacce, nonostante la scorta. Un bellissimo ricordo di gioventù le aveva fatto venire in mente Parma, e poi Marene avrebbe potuto studiare il violoncello al conservatorio. Si era fatta carico di tutto: dolore e responsabilità. Anche quando aveva spiazzato tutti, revocando la costituzione di parte civile al processo, perché si stava tentando di mistificare la realtà. Si era persino cercato di collegare l’omicidio del marito a una questione di donne. «La verità è che mio padre è stato isolato, lasciato solo da quello Stato che avrebbe dovuto proteggerlo. Solo in quella città di cui aveva cercato di far emergere tutto il marcio: ancora oggi, quando torno a Trapani, provo ansia e angoscia. E negli anni papà è stato dimenticato: è la cosa che mi fa più male. Purtroppo ci sono vittime di mafia ricordate più di altre, un po’ come se ci fossero morti di serie A e di serie B. Eppure, è stato un innovatore: il suo metodo di investigazione è quello che poi Falcone ha portato avanti».

Siamo nei primi anni ‘80, quando la parola «mafia» era ancora quasi impronunciabile. Mentre Ciaccio Montalto si stava avvicinando al «terzo livello» e avrebbe proseguito la caccia ai soldi anche alla procura di Firenze, dove aveva scelto di andare se non l’avessero ammazzato. A Trapani era ostacolato e deluso perché tanti processi erano finiti nel nulla. Gli era toccato anche di riconoscere in un’intercettazione la voce di un collega magistrato che lo vendeva a Cosa Nostra.

Un pioniere, Ciaccio Montalto, ucciso a 41 anni e lasciato per ore in strada finché un contadino, alle 6,45, si accorse del suo corpo. E poi, dopo i funerali, avvolto dal silenzio. Solo negli ultimi tempi sembra essersi risvegliato qualcosa. «Celebrazioni che diventavano solo passerelle per qualcuno. Avevo sempre evitato di andarci, ma quando decisi di partecipare a quella per il trentennale dalla morte, la delusione fu enorme: una pagliacciata. Poco tempo fa mi è stato invece comunicato che il tribunale di Trapani organizzerà a febbraio un convegno dedicato a mio padre e rivolto in particolare ai giovani magistrati: l'idea è poi di farne uno ogni anno. Mi sembra un bel progetto e penso che andrò. L’altra cosa che è stata fatta, anche se solo nel 2019, grazie alla collaborazione del Comune, di Libera e dell’Anm, e che mi inorgoglisce è l’"Albero della memoria" nel parco di Villa Margherita a Trapani: un bel monumento in rame realizzato dall’artista trapanese Massimiliano Errera».

Evita le celebrazioni che si trasformano in auto-celebrazioni, Marene. Ma va molto volentieri a parlare nelle scuole. «Quando mi chiamano, vado con convinzione perché i ragazzi sono molto recettivi e hanno bisogno di approfondire questo tema. La sensibilità, grazie anche a diversi insegnanti, è cresciuta. E non c'è niente di più vero che il rapporto con i giovani».

Anche Ciaccio Montalto li amava. Un uomo colto che si sentiva profondamente libero al timone della sua barca a vela, quando respirava aria fresca e buona. «Spero che prima o poi un regista visionario si faccia ammaliare dalla figura di un giudice ragazzino, amante della vita e del bello, sulla sua barca a vela con alle spalle la bandiera dello Stato che ha servito fino all'ultimo».

E' un filo resistente quello della disillusione. Ha avuto anche grandi gioie, Marene: una figlia bella e determinata e un nipotino di 10 mesi. Ma quel padre troppo spesso dimenticato è un peso sul cuore. «Sia io che mia madre abbiamo sempre vissuto il nostro dolore come un dramma privato, tuttavia la memoria di mio padre va preservata, ma non devo essere io ad elemosinarla. Anche a Parma, nonostante io viva qui da quasi quarant'anni, in pochissimi sanno chi sia».

E' la storia di tanti familiari delle vittime. Scivolate nell'oblio. Ripescate solo in qualche verbosa commemorazione.

Georgia Azzali

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