LA STORIA
Un pannello di tre metri per uno in mostra nella parete «nobile» del salotto. Soggetto decisamente particolare: un puzzle di 128 foto segnaletiche di 70 parmigiani arrestati dai fascisti per le loro azioni sovversive.
Quando l'ha visto alla mostra «I Capannoni a Parma» a Filippo Chiesa, videomaker, è bastato un attimo per sapere che in quel grosso rettangolo in bianco e nero c'era qualcosa di sé. E' stato nel momento in cui il suo sguardo è caduto sul fronte e lato di quell'uomo di bell'aspetto a cui si abbinavano sguardo da duro e carisma. «E ho riconosciuto subito mio padre», dice. Quel padre che - lo ripetevano sempre in famiglia - assomigliava moltissimo al nonno Gino da giovane. Gino l'antifascista, ribelle e «testa calda», sorride Chiesa, che per prima cosa ha cercato conferme. «Ho telefonato al Centro studi Movimenti e mi ha risposto Margherita Becchetti: “Sì, è proprio tuo nonno”». E da lì, grazie alle indicazioni successive della ricercatrice, gli si è aperto un mondo: quello rivelato soprattutto dal Casellario politico centrale custodito all’Archivio stato. «Ho scoperto più cose lì che in tutto il resto della mia vita - ammette -. In famiglia qualcosa mi avevano raccontato, ma non c'era l'abitudine a parlane». E invece si è ritrovato tra le mani quello che con ironia definisce «un bel faldone». Le foto segnaletiche, le impronte digitali, l'attività sovversiva svolta durante il Ventennio, «i rapporti di polizia che mostrano come lo tenessero d'occhio, e anche quelli del confino in Calabria. Mio padre me l'aveva già detto: gliel'avevano promessa».
E allora riavvolgiamola la storia di «Chiesa Gino di Egisto», come vuole l'ufficialità di allora. Era nato nel 1909, e dopo l'infanzia in via Bixio la miglia era stata costretta a trasferirsi nei Capannoni del Paullo, tra via Doberdò e via Trieste. «Era un ragazzino, e come molti poveracci si arrangiava facendo il bracciante agricolo e altri lavoretti. Ma non ci ha messo molto ad entrare nel giro dei gruppi antifascisti: i primi documenti risalgono a quando non aveva più di vent'anni. E già nelle foto segnaletiche di 10 anni aveva il viso più scavato».
In mezzo, in quei dieci anni sono certificati l'esposizione di drappi rossi con falce e martello nella zona di borgo Carra, la distribuzione di manifestini sovversivi ritrovati una volta anche sotto il suo materasso, la lunga lista di fermi e il foglio di via per quello che viene definito «uno scaltro e tenace avversario del Regime». In Calabria, a Rogliano - luogo dimenticato allora da Dio e dagli uomini ma non dai fascisti - passò diversi mesi, dal giugno al novembre del 1931, sempre sorvegliato speciale. «Appena tornato - racconta il nipote -, l’hanno riscoperto a fare le sue spedizioni, riarrestato e messo su un treno diretto in un campo di concentramento, probabilmente Mathausen, dove finivano molti dissidenti politici. Fortunatamente durante una sosta per caricare altri deportati a Verona, insieme a un compagno riuscì a scardinare una botola sulla copertura del vagone e a scappare. E questa sì, era una memoria di famiglia...».
Finita la guerra e iniziata la democrazia, compiuto il suo dovere civile, si dedicò solo alla famiglia. Aveva sposato Carolina Grignaffini, anche lei di famiglia solidamente anttifascista. «Avevo 4 anni quando è morto, ma ho ancora ricordi vividissimi - racconta Chiesa -: mi aveva regalato una microzappa per aiutarlo nell’orto, e poi le caramelle, un fucile con il tappo di sughero che rimaneva attaccato con una catenella. E' stata invece la nonna a portarmi nel 1982 a una mostra sulle Barricate all'ex Eridania. Ma forse stavolta era arrivato il momento di capirne di più: ecco perché sono andato al Palazzo del Governatore. Oltre a rivederci mio padre, che è mancato alcuni anni fa, e poi mio nonno, tra le videointerviste degli anni Ottanta c'erano anche quelle ad alcuni amici di famiglia: un altro grande piacere». Quella mostra - conclude - «mi ha riportato alle mie origini, a capire che la mia lingua madre è il dialetto: lo parlo molto bene e con accetto da capannone doc, quali sono le mie radici. E sì, quella esposizione dovrebbe diventare patrimonio comune». Perché di pareti dove quelle storie potrebbero essere appese, ce ne sono davvero tante.
Chiara Cacciani
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