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Mattarello e farina: quando la sfoglia era un rito

Mattarello e farina: quando la sfoglia era un rito

20 Febbraio 2023, 03:01

Venivano chiamate «pastine» o «sfogline» ma erano pur sempre «rezdore», particolarmente votate a fare la «fojäda». C’erano cuoche molto abili nel fare il brodo, altre nel preparare le «torte da sagra» (famose quelle di Sala Baganza e Langhirano), altre ancora a cucinare il pollame e i lessi. C’erano invece quelle figure matriarcali, nelle famiglie contadine di ieri, che ci sapevano veramente fare con «al tavlòt» (asse di legno) e la «canéla» (mattarello) al punto di realizzare sfoglie sottilissime e lunghissime (ovviamente fatte a mano) che assomigliavano a drappi di preziosa seta comasca. Insomma, veri e propri capolavori che si adattavano molto bene ad accogliere il ripieno degli anolini, dei tortelli d’erbetta o di patate e anche il ragù e la besciamella per le lasagne. La sfoglia, com’è precisato nel bel libro «Il fascino della memoria» dello studioso di tradizioni popolari Sergio Gabbi, ha certamente origini medievali. Successivamente, nel Cinquecento, avendo dimostrato la sua indiscussa popolarità sulle tavole, sia dei ricchi che dei poveri, diventò una pietra miliare della gastronomia italiana soprattutto nella nostra regione. Ennio Flaiano molto acutamente sosteneva «che il nostro, più che un popolo, è una collezione e, all’ora del pranzo, seduti davanti ad un piatto di pasta, gli abitanti della Penisola si riconoscono italiani come quelli d’oltre Manica all’ora del tè si riconoscono inglesi».

La «rezdora» di una volta, alla giovane sposa che entrava a fare parte della famiglia contadina, rivolgeva una ben precisa domanda: «Sit bón’na äd fär la fojäda?». Le risposte erano quasi sempre imbarazzate anche perché, a quelle povere e giovani ragazze, mancava l’esperienza nel tirare la sfoglia. E allora iniziavano le lezioni delle anziane ed austere suocere e delle mature cognate. Sul «tavlòt» si dovevano amalgamare farina e uova freschissime di pollaio con un energico movimento delle mani e dei polsi sino a ricavarne un impasto omogeneo da stendere con la «canéla». Secondo l'antica tradizione parmigiana, la sfoglia ideale doveva essere di forma perfettamente ovale, sottile, ma allo stesso tempo consistente al punto giusto, uniforme e con margini regolari. Inoltre, doveva essere profumata, che era poi il profumo del grano, della farina, dell’aria, della nebbia, della neve, del sole, della nostra terra e di quelle cucinone dai camini imponenti come venerande matrone e sulle cui pareti, annerite dagli anni e dal fumo, erano appese povere cose, gli amuleti dei nostri vecchi: il lunario, trecce d’aglio, immaginette di santi protettori, le foto ingiallite degli avi ed i rami che venivano lucidati in prossimità della Pasqua. Guglielmo Capacchi, nel suo elegante libro «La cucina popolare parmigiana» (Silva Editore - 1985), elenca alcuni strumenti indispensabili per fare la foglia come la «canéla» che doveva essere più lunga possibile.

Invece, per il taglio, occorreva un’apposita «coltella» piuttosto pesante e dalla tipica forma rettangolare, la famosa «cortlén’na da pasta o da pàn». Sempre Capacchi riporta alcune linee guida per fare una «fojäda» come si deve tratte da un libro di Paolo Petroni. «Mettete la farina a fontana sulla spianatoia di legno e rompete al centro uova e poi piano piano portando dai bordi al centro la farina. Procedete all’impasto strizzando prima la pasta e poi lavorando molto con il palmo delle mani. Lavorate con forza, appoggiandovi sopra con tutto il peso del corpo, prima sul polso destro, poi sul sinistro, proseguendo alternativamente». A questo punto, per quanto concerne il peso del corpo, una volta che le cure dimagranti e il fitness per le donne non erano di moda, le nostre «rezdore», oltre che rubizze, erano anche prosperose e solenni, quindi una buona pressione sulla pasta era sicuramente assicurata. La sfoglia, che consentiva alla cuoca di creare i suoi principali capolavori (anolini e tortelli), ritornava più che mai protagonista se ne avanzava.

E allora gli avanzi della sfoglia (e che.. avanzi!!!) si trasformavano come per magia in tagliatelle, maltagliati e pasta grattugiata, la famosa «pasta räza» della domenica quando, come secondo, non potevano mai mancare i lessi. E, se le tagliatelle si potevano gustare in tanti modi, condite con «butér e formàj» era la loro fine, in quanto mettevano in risalto il sapore e la fragranza della sfoglia, per gli altri due tipi di pasta si profilavano destini diversi. I maltagliati si potevano gustare, sia in inverno che in estate, in un gustoso brodo di verdura. Nella stagione inverale «al mnestròn» coi maltagliati, bel caldo, scaldava lo stomaco specie se il «rezdòr» versava nella scodella o nella fondina un «un gòsss e ànca dò ad lambrùssc». In estate, lo stesso minestrone, ovviamente con le verdure dell’orto estive, rappresentava un ottimo primo anche se mangiato tiepido. La «pasta räza», invece, necessitava di un robusto brodo di carne. Uno dei quei brodi di una volta che si usavano specie in inverno. Al brodo festivo, la «rezdora», dedicava ogni energia, adocchiando la gallina giusta. E in questo solenne brodo veniva «butäda zò la pasta räza». Ma cosa aveva di speciale questo brodo? Ce lo svela lo studioso e scrittore Giovanni Ballarini nel suo libro capolavoro «Il boccon del prete» (Tarka editore). «In Inverno i campi erano vuoti ed il cibo iniziava a scarseggiare: era necessario sfoltire il pollaio, anche quello femminile, e le galline vecchie erano destinate a finire in pentola assieme ai capponi. Queste galline, che avevano deposto solo poche decine di uova, avevano carni solide e ben sviluppate per il continuo correre nell'aia e nei campi. E le loro ossa, robuste e solide, avevano un midollo aromatico. Nutrite delle erbe odorose spontanee dei terreni incolti, il grasso di queste galline era giallo e profumato. Messe in pentola si otteneva un brodo aromatico con un profumo e un gusto inimitabili nel quale, in superficie, galleggiava un grasso che formava particolari occhi». A riprova di tutto ciò un antico e saggio adagio così recita: «gallina vecchia fa buon brodo».

Infine, per quanto concerne i maltagliati, sulla loro nascita, aleggia un mistero frutto di una antica leggenda popolare. Si narra che i «maltagliati» nacquero tanti anni fa nella canonica di un robusto prevosto della Val Taro il quale disponeva di una giunonica perpetua. La donna, un bel giorno, stava tagliando con la «cortlé’na» la «fojäda» per ricavare le tagliatelle. Il parroco, non indifferente alle procaci forme della perpetua, ronzandole intorno, non le consentiva un taglio perfetto della sfoglia in quanto la donna, zigzagando qua è là per schivare le attenzioni del prevosto, involontariamente inventò i «maltagliati» e cioè «i tagliati male». Meglio ancora, i «tajè äd zgaidón» (di traverso).

Lorenzo Sartorio

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