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Intervista

Paolo Rossi al Paganini: «Il mio spettacolo “cattivissimo” per divorzi e funerali allegri»

Paolo Rossi al Paganini: «Il mio spettacolo “cattivissimo” per divorzi e funerali allegri»

di Mara Pedrabissi

11 Marzo 2023, 03:01

Tra stand up e commedia dell'arte, Paolo Rossi è «Scorrettissimo me - Per un futuro immenso repertorio», a Parma domani alle 21 all'Auditorium Paganini con le musiche dal vivo di Emanuele Dell’Aquila, Alex Orciari e Stefano Bembi. Il teatro in un non-teatro, cioè nell'ex zuccherificio Eridania che Renzo Piano ha trasformato in un “cannocchiale sonoro”. Parte proprio da lì Paolo Rossi: «Ho tenuto il conto, su 10 spettacoli che faccio, 6 o 7 non avvengono in luoghi canonici. O sono spazi scenici, magari gestiti da teatri senza essere teatri, o addirittura luoghi molto diversi, dall'Aula Magna di un'Università, alle feste popolari, alla casa del ricco pugliese che ha adibito la propria cantina a teatro. Quindi stiamo tornando al Settecento, uno zig zag nel tempo. E io mi trovo a mio agio».

Questo è nel suo stile, in effetti. Qualche tempo fa, ha detto che l'attore tradizionale è quello che va a casa e “rompe le scatole” a moglie e figli sul suo personaggio mentre l'attore popolare è quello che “rompe le scatole” al personaggio con i suoi problemi.

«È così, anche se poi nel teatro popolare esiste una sovrapposizione molto forte, che diventa una maschera chiaramente, con la persona che la indossa. Sovrapposizione non vuol dire che l'attore fa se stesso; vuol dire che si mette al fianco del personaggio».

Il titolo è un programma: «Scorrettissimo me» fa presagire gli sberleffi di un «Cattivissimo me», anche in barba alla filosofia del «politicamente corretto».

«Questo è un aspetto. Non è che gioco sul problema del politicamente corretto, o della “cancel culture” o del “pensiero unico”. No, faccio la mia satira senza curarmi di ciò. Ma c'è dell'altro che è espresso dal sottotitolo “Per un immenso futuro repertorio”. È un teatro in divenire, d'emergenza, un teatro partecipato, in cui il pubblico è presenza protagonista. Molto è basato sull'improvvisazione: a volte dei testi nascono in quella stessa sera, si assiste al gioco funambolico dell'atto creativo. Faccio due paragoni alti, perché i modelli devono essere alti. È come guardare un quadro di Pollock o guardare Pollock che dipinge un quadro, io preferisco quest'ultimo. L'altro esempio viene dal luogo in cui ci troveremo, il Paganini: con le debite distanze, umilmente, tenendo profilo basso ma testa alta, potrei dire anch'io “Paolo Rossi non ripete” (e ride, ndr)».

Ecco Paolo Rossi: o lo si ama o lo si odia, come accade a coloro che non sono per tutte le stagioni.

«È vero, c'è stato un periodo in cui o ero molto amato oppure a qualcuno non andavo bene, diciamo. Attenzione però, perché io sono rimasto delle mie stesse idee, piuttosto sono le idee che hanno cambiato posto. Al di là della battuta, che in scena funziona sempre, ultimamente, forse per la qualità del lavoro, forse per la coerenza, sono molto riconosciuto anche da gente che non la pensa come me. Per me è una conquista perché lavorare solo nel ghetto di chi la pensa come te non ha niente a che fare col pensiero libero».

Da non milanese, lei è più milanese della Madonnina, per certi versi. I suoi maestri vengono da lì...

«I primi furono i Colla, storica famiglia milanese di marionettisti. Poi Dario Fo, ovviamente. Però devo dire che quello che mi ha dato di più, per carattere e per momenti di vita condivisi, è stato Enzo Jannacci. Ritengo che la sua “Vincenzina e la fabbrica” sia il pezzo più politico in assoluto di quel periodo; riesce a combinare una storia d'amore con un disagio sociale in una maniera che è un capolavoro».

A proposito di canzoni, guardando il luttuoso oggi del mondo, verrebbe in mente «Era meglio morire da piccoli», canzone popolare contro la guerra che lei rese celebre, cantandola come sigla di coda di un suo programma su Rai3.

«Sì, era la sigla de “Il laureato” a metà anni Novanta. Di fronte a epidemia, guerra, tragedie umanitarie, il teatro deve essere un genere di conforto. Se assumiamo questa responsabilità, abbiamo già fatto tanto perché genere di conforto vuol dire non solo condividere i problemi con il pubblico, ma anche renderli più leggeri. Il teatro deve essere un luogo dove si svolge un rito sociale e, in questo periodo, soprattutto festoso, divertente che abbia a che fare con sanissimo e sottolineo sanissimo intrattenimento. Per questo il mio spettacolo, in fondo, è una sorta di depliant, lo offriamo per le più disparate occasioni: divorzi, funerali allegri, circoncisioni, riunioni condominiali... Noi siamo a disposizione e, di fatto, la proposta funziona perché un sacco di richieste. Non guadagniamo molto però ci divertiamo tanto e a volte andiamo anche a baratto!».

Mara Pedrabissi

© Riproduzione riservata

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