Il grande imprenditore nasceva 110 anni fa
Vittorio Testa
«Attento a non usare parolone e aggettivi esagerati. Il signor Pietro non li sopportava». Grazie dell’avvertimento. D’accordo. E se tu lo dovessi definire in pochissime parole descrittive quali useresti? «Famiglia. Coraggio. Lavoro. Generosità». Per cinque anni il comandante Sandro Testa, 69 anni, bussetano, mio fratello, ha portato nei cieli di tutto il mondo i Barilla: anzi, il signor Pietro e la famiglia Barilla. Da giornalista, avere un fratello che per 1.805 giorni consecutivi aveva visto e parlato con questo imprenditore così... come definirlo così grande? Geniale? «Ma per carità, lo faresti rivoltare nella tomba», mi ri-ammonisce il fratello aeronauta deprecando la mia insistenza: «Mi ricordo una volta che avevamo a bordo un suo amico, il proprietario... del... non mi ricordo più bene il nome (sic!) e nemmeno l’attività (ma certo!) che gli tesseva lodi sperticate. A fine volo mi disse con il senso dell’umorismo dei parmigiani del sasso: «Capitàno, mi scusi, son cose che càpitano, purtroppo: ma però che sgionfèda ! A’ s’nin podeva pù . Un bel momento stavo per chiederle di paracadutarlo!». E preoccupato d’essere stato troppo ciarliero, il consanguineo alato, saluta con un definitivo scoraggiamento. «Fossi in te lascerei perdere, perché lui detestava i monumenti sia pure verbali alla persona: “Sono eroi tutti destinati più o meno in fretta a sloggiare dal piedistallo destinato a un altro”, mi disse una volta, subito premuroso di non attribuirsi meriti altrui: “Credo l’abbia detto il mio amico Mino Maccari”». Sì Maccari, uno dei tanti amici artisti, intellettuali, scrittori, giornalisti, con i quali intratteneva rapporti, di ammirazione. I nomi? Fra i tanti: Baldassare Molossi, Indro Montanelli, Riccardo Muti, Giorgio Morandi, Mario Ceroli, Marino Marini, Giacomo Manzù, Renato Guttuso, Ennio Morlotti. Il signor Pietro aveva un’idea precisa del ruolo dell’arte: quello, non certo ancillare, anzi di celebrazione di un bisogno dell’«homo faber»: cioè il segnare le tappe di un’esistenza umana e imprenditoriale scandita da una crescita economica, sociale alla quale le opere d’arte davano un contributo di bellezza.
Per esempio, è il caso della scultura-piazza di Cascella, «Campi di grano» commissionata per festeggiare il ritorno dell’azienda alla famiglia. Fu negli anni Settanta che Parma corse il rischio di perdere la Barilla, finita in mani straniere. E fu soltanto per una meritoria testardaggine benedetta dall’alacrità e dall’autostima di Pietro, del signor Pietro, prego, che riuscì in un miracolo nonostante il pessimistico e fallimentare consiglio (e/o augurio?) del patron della finanza italiana, Cuccia, il quale visti i conti impartì la bene-o-male-dizione con l’asperges grondante di sfiducia. Si può? È legittimo usare un aggettivo a favore del signor Pietro che a quel punto avrebbe potuto salvare sé stesso e, buonanotte suonatori, andarsene da Parma? Come definire questo gesto se non come un esempio di coraggio per sé, certo, per continuare a garantire benessere alla sua propria famiglia, com’è obbligo morale ed etico, fondamento su cui poggia la convivenza civile: e soprattutto per onorare il compito che il caso, la sorte, o Dio, se volete, avevano assegnato a questo uomo riservato, dolce, protettivo, sensibile e capace. Un Dio campanilista che gli chiede di onorare il contratto sociale con i suoi concittadini, con la Parma alla quale lui sente di dovere qualcosa, e che per lui non vi sarà pace se non avrà fatto tutto il possibile. Finale della sfida lanciata dal signor Pietro a tutti gli uomini di buona volontà: salvare Parma dal declino che in quei terribili anni di piombo e di incipiente crisi minacciava di prevalere.
E qui, fatta la fotografia dell’esistente allora, guardiamo l’oggi. Barilla ha più di ottomila dipendenti, ha accompagnato la crescita della città madre: dal Teatro Regio agli stanziamenti per l’Università, dalla creazione di un ospedale infantile al sostegno a Padre Lino, e persino il merito di aver consentito a Vittorio Adorni di diventare ciclista professionista. «Assunto come operaio», ricordava il bel Vittorio con a fianco la simpatica signora Vitaliana, «per allenarmi dovevo alzarmi alle sei, fare un paio di ore di strada e andare al lavoro vestito così com’ero, da corridore. Una mattina incontro davanti all’ingresso un signore molto distinto che mi ferma e mi chiede perché io sia conciato in quel modo. Io gli spiego la situazione», diceva emozionandosi il futuro campione del mondo. «E lui mi fa: da domani lei faccia l’allenamento che ritiene di dover fare. Poi fa la doccia e va al posto di lavoro in ordine: recupererà, nel caso sia necessario in maniera più comoda. Intesi?». «Bene» dico io, ma scusi lei chi è? Come faccio a fidarmi?». «Mi chiamo Pietro Barilla. Vuole che le mostri i documenti?».
Dove era di scena un parmigiano, se appena possibile il signor Pietro andava felice all’appuntamento con la parmigianità. A Berlino una sera andò a sentire Carlo Bergonzi, interprete di un «Trovatore» diretto dal mitico e sopracciglioso séadorante von Karajan. Un Bergonzi in forma divina cantò l’aria «A sì ben mio» in maniera tale che, come si suol dire venne giù il teatro. Dopo dieci minuti di ovazioni continue il Maestro pose la bacchetta sul leggìo, si girò e si unì al battimani del pubblico. Un trionfo mai visto. E fu un Bergonzi commosso fino alle lacrime quello che si sentì elogiare in lingua madre dal signor Pietro precipitatosi nel camerino a gioire di parmigianità. «Caro Bergonzi», disse al Manrico più bravo del Novecento: «Stasera mi ha portato in paradiso. E lei, un pramzàn fort cme ‘l tròn è riuscito persino a fèr cridèr un mounument d’un todesk! ».
Ci fermiamo qui. Ma con quale aggettivo definiremo le gesta del signor Pietro? Fate voi. Noi, dopo aver mandato un saluto riconoscente ai continuatori della sua impresa, e quindi un grazie alla signora Marilena e ai figli, propenderemmo per un titolo a nove colonne: «L’importanza di chiamarsi Pietro». Sottotitolo: «Le normali e sbalorditive imprese del parmigiano Barilla, ora lassù, stella protettrice che brilla». Che ne dite? Si rifà vivo infine il fratello volante: chiede, sospetta e teme che abbia scritto esagerazioni. E chiude dicendo che il signor Pietro era «un uomo molto elegante». Vero: ci sono fotografie di lui che sembra il premier inglese Antony Eden appena uscito da un’alta sartoria di Bond Street, bell’uomo che spicca per classe innata. Vuoi vedere che alla fine il fratello capitano dell’aria mi confida una chicca, una esclusiva curiosità? Gli chiedo: «Sai per caso qual era il suo sarto?». Lui: «Ma quale sarto!? Era un santo, questo sì, a dover sopportare l’invadente curiosità di certi giornalisti. Esclusi i presenti, ovviamente».
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