×
×
☰ MENU

Tutta Parma

Famiglie contadine, chi teneva le redini era la «rezdóra vécia»

Famiglie contadine, chi teneva le redini era la «rezdóra vécia»

24 Aprile 2023, 03:01

«Le donne - sottolinea l’etnologo Piero Camporesi - erano le detentrici e le trasmettitrici del sapere, attraverso fiabe, canzoni, ninne-nanne, i proverbi, gli scongiuri, le ricette, i segreti. Esse presidiavano i due grandi poli dell’esistenza, la nascita e la morte, conoscevano le tecniche del parto, prestavano assistenza alla puerpera e al neonato, vegliavano durante la malattia, lavavano con tenerezza i piccoli appena usciti dal grembo e con profonda pietà i corpi ancora caldi dei morti. Dure a sopportare i dolori, tarde a lamentarsi, infaticabili nel lavoro, avevano sotto il loro assoluto controllo la cucina e la farmacia domestica, il cortile, la dispensa, l’armadio, il pollaio e l’orto».

Parole che sembrano davvero un affresco che svela l’importanza, la solennità e l’assoluto ruolo preminente nella famiglia contadina di ieri della «rezdóra», meglio ancora, della «rezdóra vécia». Nell’antica famiglia patriarcale agricola, oltre il «rezdór», che era convinto di comandare, chi effettivamente aveva lo scettro, la mazza del comando era lei, la «rezdóra» : colei che in gergo aulico si può definire «reggitrice anziana», ma che nelle nostre campagne, le giovani, chiamavano tout court la «vécia». Persona rispettata, ma soprattutto temuta, la «vecchia», teneva in mano saldamente le sorti della casa facendo filare come soldati sia uomini che donne, eccezion fatta per il marito al quale, per rango e per rispetto, si rivolgeva con il «voi». Ma se con i figli e le figlie la «rezdóra vecchia» era severa ed inflessibile, con le nuore non era da meno. Quando uno dei tanti figli si sposava, non appena la giovane moglie entrava nella casa ma, soprattutto, entrava a fare parte della famiglia, le rivolgeva la fatidica domanda: «sit bón’na äd fär la fojäda?».

Le risposte erano quasi sempre imbarazzate anche perché, a quelle povere e giovani ragazze, mancava l’esperienza nel tirare la sfoglia. Ed, allora, iniziavano le lezioni delle anziane ed austere suocere e delle mature cognate. La cassa era gestita oculatamente dalla reggitrice la quale, quando giungeva nella corte il merciaio, acquistava a seconda del proprio gusto anche per le figlie e le nuore e se le giovani, per caso, avessero azzardato acquistare qualche oggetto ritenuto inutile, con poche e secche parole ringhiava il suo diniego. Al mattino di buon’ora era lei che dava la sveglia alla famiglia, preparava la colazione, accudiva il pollaio, controllava le uova e curava l’orto. E, per quanto concerne il pollaio, era sempre lei che ingaggiava, nel periodo estivo, il «castradór» per «fâr i capón» da immolare per Natale. Un altro rito che la vedeva protagonista era quello dello «sperär l’óv». L’anziana ispezionava minuziosamente l’uovo scrutandolo contro la luce di una candela e mettendo le mani in modo tale da poterne esplorare l’interno. Se l’uovo presentava determinate caratteristiche, allora, voleva dire che era fecondo e che quindi il gallo aveva fatto il suo dovere. E se il gallo non fosse stato all’altezza del proprio compito? «A fagh prést - usava dire l’Anselmina Schianchi, indimenticabile veneranda di Panocchia - al mètt in padéla e n ’in compor n’ätor al marchè».

Anticipando una sorta di indipendenza economica da parte delle donne, il ricavato della vendita delle galline e delle uova al mercato nonché delle piume d’oca che servivano per fare cuscini e trapunte, era di esclusivo appannaggio della veneranda «rezdóra». Era sempre lei, la «vécia», a decidere il piatto del giorno che, magari, poteva essere anche cucinato dalla nuora, però, per bene che fosse stato fatto, a lei, non andava perché, o carente di sale, o troppo cotto, troppo crudo, oppure poco gustoso. Impartiva ordini alle donne giovani di fare il bucato ed insegnava loro come farlo e quali ingredienti usare per sbiancare la biancheria a dovere, gestiva in prima persona i lavori femminili quando «a’s mazäva al gozèn» attendendo il momento giusto, con le altre donne, per fare il «sangonàs» o i ciccioli armeggiando con il «fogón» allestito nell’aia. Come pure si posizionava al centro del tavolo seduta in una «scràna äd pavera» per centellinare con il manico di un cucchiaino il ripieno degli anolini da mettere sulla sfoglia. Quando cucinava pollo, gallina o cappone per la sagra o le festività canoniche, ai commensali di riguardo ed al «rezdór», venivano serbate le parti nobili, mentre alle «lavoranti» spettavano le zampe, il collo, la testa e il magone. Un menù di infima specie che si consumava nella grossa cucina dove si apparecchiava giusto per le donne di casa e per i bambini. Alla sera, terminata la cena, era sempre lei che, dopo avere lavato i piatti con le altre donne, riassettata la cucina, intonava il rosario riprendendo aspramente in dialetto quelle giovani che si fossero addormentate per poi proseguire quella monotona tiritera recitata in un latino maccheronico che avrebbe fatto assopire anche un elefante.

Era sempre lei ad accudire, come una vestale, il fuoco del camino che non doveva mai spegnersi, come era lei che faceva il pane segnandolo prima della cottura con un propiziatorio segno di croce fatto con il pollice. Era pure la «gran sacerdotessa» della polenta. Non appena l’acqua bolliva, la donna, con abile gesto dalla mano che ricalcava quello delle sue ave, oppure lentamente con l’apposita paletta di legno, gettava nel paiolo quella polverina gialla come l’oro che, per magia, dopo un pò di tempo si rapprendeva, mentre la «vécia», ricurva sul camino e bagnandosi di tanto in tanto gli occhi, continuava pazientemente a mescolare con il «polintén» (bastone incurvato) l’ incandescente lava affinché non facesse grumi.

Intanto, nel paiolo, si compiva il «miracolo della polenta» con quei piccoli soffioni che esplodendo a ripetizione («lofìr»), quasi si trattasse di un fenomeno vulcanico, annunciavano che ormai il tempo di cottura stava scadendo. Inflessibile con i nipoti, era di un’ estrema rigidità anche con i «famj», con il vaccaro e con quei poveri mendicanti ai quali concedeva un piatto di minestra o un giaciglio nel fienile. Avvolta d’inverno in una mantellina di lana nera «spära brén’na» («ripara brina») tenuta ferma da una «gòccia pasànta» ( «spilla da balia»), immancabile fazzoletto in testa, sempre nero, che incorniciava un viso devastato dalle fatiche e dalle rughe, la «vécia», era molto sensibile alle visite del prete al quale era prodiga di offerte, non solo per conquistarsi il paradiso, ma anche per non essere da meno con i vicini e i «cazànt». Di poche parole, decisionista, ostentava una sicurezza straordinaria nei lavori di casa dove era veramente esperta per avere, a sua volta, giocato il ruolo di nuora ed avere avuto come «caporale» un’ altrettanto severa suocera. Ed, allora, tutto ciò che riguardava la casa: dalla pulizia dei pavimenti in cotto, al lavaggio dei vetri, alla cura dei capi di vestiario, al bucato, tutto, era saldamente nelle sue mani. Ma, siccome le piaceva comandare, impartiva ordini a destra e a manca alle più giovani alle quali non era consentito nemmeno fiatare, ma ubbidire e basta, per poi sfogarsi, in separata sede, con i propri mariti i quali, in quanto figli della «vécia», a loro volta, dovevano stare zitti e ingoiare le rampogne della madre e della moglie. Solo quando la nuora era incinta la «vécia» diveniva un po’ più dolce: una dolcezza , però, infarcita di grande dignità ed altrettanta fierezza e cioè senza sdolcinature. Comunque, talune attenzioni per la futura mamma non mancavano anche se il suo ruolo di sottoposta non era certamente messo in discussione. Quando in estate sull’aia ed in inverno nella stalla si svolgevano le veglie serali, la «vecchia reggitrice» era al centro del gineceo familiare attorniata dalle giovani e meno giovani per la monda delle verdure, oppure per rammendare calze o indumenti. Solo lei poteva borbottare qualcosa mentre alle altre era concesso rispondere ma, certamente, non intromettersi.

Quando si alzava per andare a letto, tutte le altre donne la seguivano anche perchè sarebbe risultato sconveniente che una giovane si fosse attardata in veglia da sola o con le sue coetanee in assenza delle donne anziane e, per di più, dell’ingombrante «vécia». Era sempre lei che sceglieva la gallina o il cappone da immolare in occasione della sagra, del Natale e della Pasqua che poi venivano giustiziati e spennati dalle giovani, mentre spettava a lei preparare il brodo come se si trattasse di un vero e proprio rito. Era portatrice della tradizione per quanto concerneva le varie scadenze religiose e popolari come: esporre i panni la notte della «rozäda äd San Zvàn», conservare la cenere della «sòca» dell’Avvento ed il pane messo in tavola la sera della Vigilia di Natale, fare il nocino con le noci «benedette» di rugiada nella notte del 23 Giugno, organizzare il «pulisii äd Pascua» lucidando a dovere tutti i rami appesi nella cucinona in vista dell’arrivo del «prét par la bendisjón», bruciare l’olivo benedetto nella Domenica delle Palme in occasione di grandinate e temporali, tagliare la spongata natalizia, ammucchiare i resti del vino per fare l’aceto, conservare i petali di rosa raccolti nella ricorrenza di Santa Rita, tenere i contatti con la «medgón’na» alla quale affidare ai suoi poteri magico-esoterici qualche familiare ammalato. Erano tempi in cui, anche nelle famiglie, esisteva una rigida gerarchia, si osservava il silenzio, i giovani ubbidivano ai vecchi e suocere e nuore si amavano come.. cani e gatti. Oggi, le cose sono radicalmente cambiate, la storia ci dirà se in meglio o in peggio. Però, tra nuora e suocera, simpatia ed affetto, nonostante sia trascorso tanto tempo, salvo rari casi, continuano ad avere la durata della «néva marsolèn’na» che dura, secondo il saggio adagio, «da la sìra a la... matén’na».

Lorenzo Sartorio

© Riproduzione riservata

CRONACA DI PARMA

GUSTO

GOSSIP

ANIMALI