Reportage
Le abbiamo viste iniziare nei film, le riunioni di Alcolisti Anonimi. Ma difficile immaginare cosa - e quanto - accada dopo: per questo abbiamo voluto fare un'esperienza diretta. Le stanze in cui entrerete sono due perché due sono i vissuti a cui i gruppi di auto-mutuo-aiuto offrono sostegno: quello di chi beve e quello dei familiari. L'alcolismo è definito una malattia della famiglia e con Al-Anon anche genitori, coniugi, figli, fratelli e sorelle possono avere - in parallelo o no -un luogo da cui provare a riprendere in mano le loro vite.
Il solo requisito è il desiderio di smettere di bere. Lo scopo è restare sobri e aiutare altre persone a diventarlo. E questa volta non sì è tutti in cerchio.
Due tavoli uniti cadenzati dalle bottigliette d'acqua e i (pochi) fogli coi punti del programma di Alcolisti Anonimi. Caramelle e cioccolatini al centro, pronte a scorrere. Sei uomini e quattro donne di diverse età, con decani e quasi debuttanti seduti in ordine sparso. Nessun esperto esterno «e forse è ciò che fa tornare: non hai bisogno di spiegare, non ricevi consigli, non c'è giudizio da temere, ma ci si riconosce negli altri». E ora si comincia.
A turno si legge uno o più dei 12 Passi. Il primo: ammettere di essere impotenti di fronte a quello che non è un vizio («Magari: sarebbe più facile...» si dirà) ma una malattia. Tra gli altri, emergono l'umiltà e insieme il coraggio di «fare un inventario morale di noi stessi», «l'elenco di tutte le persone a cui abbiamo fatto del male», l'impegno a rimediare. Si nomina un Dio, un Potere superiore ma non è di religione che si parla, piuttosto di fede: in qualcosa di superiore alle proprie sole forze, e ciascuno lo declina per sé.
È tempo della formula. Quella. «Sono R., e sono un alcolista». Segue un corale «Ciao R.» in cui si mette ciò che si ha per accogliere: dolcezza, energia, pacatezza. Il primo giro è per raccontare (oppure no: l'unico invito è a «ascoltare senza interrompere, prendere ciò che serve e lasciare il resto») come si sta. E questa sera c'è l'intera varietà: dal «bene» al «tosta ma sono sul pezzo», da «una giornata di cose belle» a una «da buttare, ma sempre meglio di quando ero un bevitore cronico». Pure un «se non fossi venuto, mi sarei chiuso troppo in me stesso».
La lettura che dà spunto al secondo giro porta con sé due opposti che tutti - lo si scoprirà tra riflessioni e storie - hanno ben presenti: l'autodistruzione e l'istinto di vivere. La prima a prendere la parola ricorda «quando bevevo e mi facevo schifo. Avevo una vita vissuta, due figlie: non ho trovato risposta al perché. Forse ero già predisposta per carattere: e bere accentuava i miei lati negativi. Qui mi è stata data la possibilità di stare bene. Ma il cambiamento è dovuto partire da me». «Io all'alcol ci pensavo ogni minuto - si leva la voce alla sua sinistra - come procurarmelo, dove nasconderlo. Ho trovato la compagnia sbagliata e alla fine non uscivo nemmeno più per la vergogna. Per seguire il programma ho dovuto tirarmi su le maniche: all'inizio se non ci metti impegno e amore non funziona». A mano a mano sfilano gli «ora basta» e «solo un bicchiere» mai mantenuti, i black out al risveglio domandandosi «se e a chi avevo fatto del male quando non ero io». «Io sono in cammino - si ammette - passo ancora giornate di m... perché l'orgoglio e le paure non mi fanno aprire quando ne ho bisogno. Qui però è avvenuto qualcosa di magico: ho visto persone col mio stesso problema che avevano trovato un altro modo di vivere».
Nel fondo di sofferenza a volte arriva - non banale - anche l'ironia: difficile ridere insieme. Molto più del piangere. «Se penso alla cantina chiusa a chiave e io che mi arrampicavo per raggiungere le finestre... avevo anche una certa agilità! E mentivo biascicando: oggi fa ridere ma era una tortura. Avevo iniziato per divertirmi la sera ma sono arrivata a svegliarmi pensando prima all'alcol che alla colazione dei miei bimbi. Un giorno mio marito mi ha trovata sul divano ubriaca, nostro figlio di 6 anni accanto a me. Ho visto il suo sguardo e ho pensato che non potevo fargli una cosa del genere. E qualcosa è scattato». Anche la donna che le sta di fronte è arrivata «per non perdere mio figlio. L'altra era già andata a vivere col padre».
«Io sono stato programmato per uccidermi e se non fossi venuto qui, oggi non sarei sulla Terra. Dell'alcol ero schiavo. Quando ho sentito parlare di Potere superiore ho detto “Dai, ragazzi: ho smesso di bere, non potete chiedermi di più!”. Poi ho capito. Oggi non mi piango addosso e riesco a staccare il mio star bene dagli eventi, accettando che non tutto dipende da me». «Qui ho trovato tutto ciò che serviva per il mio recupero ma a volte faccio ancora fatica. E allora torno, come fosse una palestra per allenarmi a vivere fuori».
Si va verso la chiusura. C'è una busta che passa per autofinanziare volantini e materiali, poi il finale è con la «Preghiera della serenità»: si recita mano nella mano, per finire ad alzarle insieme come di fronte a un traguardo collettivo. E non c'è un Amen, c'è un «Auguri!» che accompagni in ogni domani.
Chiara Cacciani
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