LA STORIA
Anne Hawk
La vita per sconfiggere l’odio. La memoria per combattere il male. Il dovere di raccontare, di tramandare, soprattutto ai ragazzi delle scuole, cosa è accaduto nel nostro Paese, l’Italia.
In una città come Milano, una ragazza di quindici anni come tante, un giorno improvvisamente diventa cittadina di serie B, non può più andare a scuola, espulsa dal liceo classico in quanto ebrea, perde i suoi amici, deve abbandonare la propria casa, allontanarsi da tutto ciò che è noto e caro ed è costretta a fuggire, a nascondersi, rinunciando anche al suo nome, vivendo per anni nella paura per sé e per la propria famiglia di essere catturata.
Ma, al di sopra di tutto, il dovere imperativo di vivere pienamente la vita ogni giorno, nel bene e nel male, come una conquista, sempre a testa alta con coraggio, consapevolezza e dignità.
Così ha vissuto Anna Marcella Falco, nata cento anni fa a Parma, milanese per gran parte della sua lunga esistenza, densa di avvenimenti e segnata dalle Leggi Razziali e dalle persecuzioni anti ebraiche.
Nasce in via Palestro 1 il 28 aprile 1923 perché il padre Mario Falco, avvocato e giurista, insegna Diritto Ecclesiastico all’Università di Parma. Poi si trasferisce con la famiglia a Milano. Una vita normale che si interrompe bruscamente nel settembre del 1938, con l’emanazione delle Leggi sulla Razza quando viene espulsa dal Liceo Manzoni, dove frequenta la quinta ginnasio, e il padre viene licenziato dall’Università Statale degli Studi dove insegna dal 1924.
La cacciata dalla scuola è per lei una ferita esistenziale, uno vero shock, un tradimento. I professori, le compagne di classe e le amiche più care non la cercano e non la cercheranno più, semplicemente scompaiono. E scomparse sono rimaste.
Nei circa trent’anni di testimonianza, soprattutto nelle scuole e nelle università, è questo il passaggio che più le interessa condividere e riuscire a comunicare ai ragazzi: il senso di ingiustizia, di isolamento e di solitudine di quei giorni. Tutte le altre discriminazioni di quel periodo, il non poter più andare in vacanza nei luoghi consueti perché considerate mete privilegiate, proibite agli ebrei, il separarsi dalle governanti con le quali per anni la famiglia aveva convissuto (divieto per gli ebrei di avere personale di servizio) o anche la semplice confisca della radio sono umiliazioni e amarezze di fronte alle quali la famiglia Falco è capace di stringersi con forza.
Seduta su una sedia con gli studenti in cerchio davanti a lei, Anna Marcella descrive cosa vuol dire perdere il diritto allo studio, il non poter più entrare a scuola, in una Milano diventata da un giorno all’altro “una città moralmente deserta” e si congeda con una battuta triste dal ricordo di quelle compagne che considerava amiche: «sono sessant’anni che aspetto una loro telefonata, ma… non arriva».
Donna energica e colta, ma pragmatica e diretta, odia la retorica e la pomposità, per questo motivo non ama sedersi dietro la cattedra, ma preferisce stare seduta in mezzo a chi la ascolta, cercando di volta in volta i toni giusti per raccontare la sua giovinezza in fuga.
La fuga da Milano, dopo i primi pesanti bombardamenti alleati, il trasferimento a Ferrara dove vive la famiglia materna, poi, con i primi rastrellamenti fascisti e il progredire della caccia agli ebrei, la fuga nelle campagne appena fuori dalla città, ad Alberone di Ro, dove il padre, a cui è legatissima, muore a soli 59 anni per un attacco di cuore all’inizio dell’ottobre 1943.
Rimasta sola con la madre e la sorella più giovane di 5 anni, Graziella, con il dolore di quella perdita sulle spalle, nel giro di pochissimi giorni e con la forza della disperazione le tre decidono di accettare l’invito di un caro amico e allievo del padre e fuggono a Roma, dove restano nascoste per un anno e mezzo nella casa del Professor Arturo Carlo Jemolo, che salverà loro la vita.
Il racconto di quel viaggio in treno, lunghissimo e pieno di pericoli attraverso l’Italia occupata, è forse l’unico momento in cui la voce di Anna Marcella si incrina, in ogni testimonianza, ogni intervento, ogni intervista o conferenza in Italia e all’estero, nelle sedi istituzionali, in televisione o in radio.
«... Siamo in treno, all’altezza di Orte, un uomo, credo un trafficante della borsa nera, ci dice: “Vedete quel merci lì” - ne incrociavamo uno - “è pieno di ebrei. Li hanno portati via tutti. E fanno bene ad ammazzarli; è tutta colpa loro se scoppiano le guerre”. Avevamo incrociato il treno del rastrellamento del ghetto di Roma del 16 ottobre 1943. A questa comunicazione “altamente scientifica” ci si è gelato il sangue, io e mia mamma ci siamo lanciate uno sguardo e alla prima galleria abbiamo buttato fuori dal finestrino i documenti e qualche gioiello che ci potevano rendere riconoscibili in quanto ebree. Sedute in quello scompartimento, con una piccola valigia a testa, senza sapere cosa ci aspettasse all’arrivo, abbiamo capito, ma capito davvero, l’enormità di quello che stava succedendo».
La conoscenza della lingua tedesca e il loro aspetto ariano, la madre e la sorella sono alte, bionde e con gli occhi azzurri, sono fondamentali all’arrivo e per tutta la durata della clandestinità a Roma, dove la famiglia Jemolo le accoglie dopo aver licenziato la segretaria e la cameriera che avrebbero potuto tradirle. A Roma, racconta Anna Marcella, è “addetta alle vivande” cioè cerca cibo, anche al mercato nero e contribuisce come può al bilancio famigliare, cercando sempre di mantenersi attiva.
Ottenuti i documenti falsi, grazie a conoscenze e contatti di Jemolo in Vaticano, (il suo nome diventa Anna Maria Fabbri, mantenendo uguali le iniziali), lavora per una signora appartenente al Partito d'Azione e “con molta sfacciataggine o coraggio”, prepara e porta pacchetti di generi di prima necessità a ufficiali e soldati detenuti nel carcere di Regina Coeli. L’amicizia con i figli coetanei di Jemolo la porta a frequentare i circoli antifascisti della capitale, ad attività di stampa clandestina e, sfidando il coprifuoco, a lunghe serate di bridge.
Sembra incredibile ma questo periodo, che coincide con i suoi vent’anni, è un momento di grande fermento, grandi speranze, grande crescita personale. Dopo la liberazione di Roma, nel giugno 1944, lavora per gli Alleati al Ministero delle Finanze e ricorda - sono immagini che avrà in mente tutta la vita – «una mattina una velina, scritta a macchina, girava per l'ufficio. C'era scritto che in Europa erano stati deportati e uccisi più di cinque milioni di ebrei e che la maggior parte era stata uccisa in una località della Polonia che si chiamava Oswiecim, il nome polacco di Auschwitz. Questa è stata la prima volta che ho sentito quel nome...»
Ritornata a Milano, dopo la Liberazione, apprende che parte della sua famiglia è stata deportata e sterminata e segue, in un primo momento, la madre e la sorella che abbandonano per sempre l’Italia e si stabiliscono in Palestina (dal 1948 Stato di Israele).
Il suo carattere appassionato, grintoso e volitivo la spinge a tornare in Italia, a Milano, città che l’aveva rifiutata e derubata di tutto, per sposarsi con Enrico Tedeschi (un suo compagno di scuola che aveva trovato rifugio in Svizzera) e si ricostruisce una vita.
Senza mai dimenticare si dedica alla famiglia (avrà tre figli), alle traduzioni dall’inglese e dal francese tra cui quella del libro “Il Girasole”, opera manifesto e riflessione collettiva sul delicato tema del perdono, dell’amico Simon Wiesenthal, il celebre cacciatore di nazisti. Intellettuale poliedrica e curiosa, donna vulcanica, a tratti indomabile, dalla parlantina svelta e spiritosa è amante dei viaggi, della lettura, del cinema e della cultura classica (pochi giorni prima della sua morte nel 2014 una figlia la sente recitare a memoria in greco il primo canto dell’Odissea).
Il suo legame con Parma è fortissimo e tassativo, nelle prime parole di ogni suo racconto (in italiano, inglese, francese o ebraico) il cui incipit è sempre lo stesso: il sorriso divertito, il dito della mano destra alzato in forma avversativa: «Sono nata a Parma, il 28 aprile 1923», affermazione che racchiudeva due fondamentali fierezze, quella per l’amata città natale e quella per la sua età, di cui non ha mai fatto mistero.
Nel 1998 arriva da Los Angeles nella sua casa del centro di Milano una troupe della Survivors of the Shoah Visual History Foundation di Steven Spielberg. I telefoni vengono staccati, nessuno entra o esce dal suo appartamento: il risultato, dopo più di 20 ore di bivacco nel suo salotto con una giornalista, un cameraman e due tecnici, sono due videocassette per un totale di più di sette ore di testimonianza. Un mese dopo riceve una lettera da Steven Spielberg che la ringrazia per la sua forza d’animo e la sua generosità di spirito. Con il suo consueto humour inglese lei commenta: «sono madre dei miei tre figli, è il minimo».
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