Intervista
Gregory Kunde è nato in Illinois (Usa), non propriamente la patria della lirica. La prima aria ascoltata, negli anni '60, fu «Ridi Pagliaccio» (Vesti la giubba), dall'opera di Leoncavallo. Non nella versione originale ma... adattata alla pubblicità del Rice Krispies, il riso soffiato con cui facevano colazione le famiglie a Stelle e strisce.
Il vento fa il suo giro, si sa, e non si può mai prevedere dove andrà a parare.
Oggi Kunde, a 69 anni, è ritenuto uno dei tenori più importanti; nel 2012 ha vinto il Premio Abbiati per l'«Otello» di Verdi alla Fenice, come dire l'Oscar della lirica. In questi giorni è a Parma per interpretare Canio nei «Pagliacci» (debutto al Teatro Regio venerdì 5 maggio alle 20), cantare proprio quell'aria là, col senno di poi “profetica”. Che se glielo avessero detto allora, avrebbe riso divertito. Non riso soffiato.
Ruolo profondo quello del pagliaccio Canio. «Per me è una parte molto interessante - racconta il tenore, in una pausa delle prove - Presenta tutta la gamma delle emozioni. All'inizio è divertente, poi quando scopre la “coppia iniqua”, come dico in Maria Stuarda, cambiano i toni. L'ultima scena è molto potente: Canio pretende il nome dell'amante della moglie Nedda e, al suo rifiuto, l'accoltella. Arriva Silvio, l'amante, per difenderla, e Canio uccide anche lui».
I temi drammatici dei «Pagliacci» - la gelosia, la violenza sulla donna - rimandano a due celebri modelli, Carmen (nell'opera di Bizet) e Desdemona («Otello»).
«Vero. A me ricorda molto “Otello”, in particolare. Certamente “Pagliacci” è più breve ma c'è lo stesso triangolo: Canio come Otello, Nedda come Desdemona, e Tonio è affine a Iago, incita Canio alla violenza. Con la differenza che in “Pagliacci” la gelosia è fondata, in “Otello” no. Quando finisce la recita, mi resta addosso la stessa amarezza, sia dopo “Pagliacci” che dopo “Otello”».
Fuori dall'opera, in Italia, in questo periodo storico, il tema dei femminicidi è grave e urgente. Si è coniato addirittura un termine che non c'era. In America?
«Anche in America. Uomini che uccidono le donne non è un problema solo italiano, è un problema del mondo. A mia figlia Isabella, che ha 21 anni, io e mia moglie ripetiamo di stare attenta: “se vedi che qualcosa non ti convince, lascia subito”».
Tornando a Canio, come ha studiato il ruolo? Chi ha ascoltato?
«L'ho studiato qualche anno fa, oramai. Il mio debutto in “Pagliacci” è del 2015, a Bilbao. Ho ascoltato il Canio di Domingo. Ho visto anche il dvd di Pavarotti, al Metropolitan: canta benissimo, e lo sappiamo, ma è anche un attore veramente bravo. Tuttavia il mio modello, in epoca contemporanea, per il ruolo è Domingo, modello anche di concentrazione. Serve particolare concentrazione per creare un personaggio credibile».
A proposito di modelli, Alfredo Kraus è stato suo maestro.
«Negli anni '70 a Chicago, ho studiato con lui e mi ha preso sotto la sua “ala protettrice”. Ho imparato tanto, specialmente gli acuti; ho studiato il suo fraseggio, il suo comportamento in scena e fuori scena. Era molto disponibile con gli studenti».
La sua voce è un miracolo: col tempo anziché diminuire si ingrandisce. È «Il curioso caso di Benjamin Button» al contrario.
«(Ride divertito, ndr) È vero. In realtà se pensiamo a Giuseppe Di Stefano, Carlo Bergonzi, Franco Corelli, Richard Tucker, Luciano Pavarotti... tutti loro hanno cominciato con il belcanto. Non Rossini perché all'epoca non si faceva, ma belcanto, quindi “Lucia”, “L'elisir d'amore”, “Puritani”. Per poi passare a un repertorio diverso. Lo stesso ho fatto io, quando mi sono accorto che la mia voce era cambiata. Ero a Pesaro, nel 2004, avevo 50 anni e, a quel punto, la voce era cresciuta, naturalmente, senza che facessi niente. Ricordo che un giorno qualcuno, forse il sovrintendente Ernesto Palacio, mi disse: “Ma tu devi fare l'Otello di Verdi con questa voce”. E da lì ho cambiato repertorio».
Ora il Verismo di «Pagliacci». Cosa dice della regia di Franco Zeffirelli?
«Che fortuna! Mi è capitato di cantare in spettacoli sulla cui regia non voglio dire nulla. Invece quando lavoro in uno spettacolo di Zeffirelli è sempre un piacere, mi trovo sempre a mio agio».
Ultima domanda. Il tenore è un po' la “primadonna” delle voci maschili. Rispetto al basso e al baritono, è più agitato dietro le quinte. Di lei dicono il contrario: è vero?
«Sono tranquillissimo sempre. Prima di andare in scena tengo in tasca qualche caramella con miele e erbe. O bevo un caffè. In camerino, a Roma, avevo una macchina Nespresso e tutti venivano a rifornirsi da me».
Mara Pedrabissi
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