IL LIBRO
Vita difficile quella degli agricoltori collinari a causa delle avversità atmosferiche che stanno vanificando molte fatiche. In un piccolo paesino dell’Oltrepò pavese, la situazione sembra ancora più drammatica agli occhi di un adolescente, Andrea, che ascolta i lamenti rabbiosi del padre Pietro, della madre e dello zio che combattono una guerra quotidiana contro una terra resa sterile da una siccità prolungata. Gli incanti bucolici della campagna franano e sconfinano nel dramma rovinoso entro cui s’accendono dispute e rivalità, rimostranze contro le autorità e lotta alla fauna selvatica che devasta orti, vigne e ogni altro tipo di coltivazione, con la messa a dimora di trappole micidiali (e proibite).
In questo scenario a lui ben noto si cala lo scrittore parmigiano Guido Conti con il suo nuovo romanzo (ne ha scritti una trentina), in cui tra commedia e tragedia racconta tutti i problemi che «La siccità» (Bompiani, 352 pagine, euro 18, in libreria da mercoledì), causa a chi ha affidato alla terra l’esistenza. Una situazione che tormenta anche Andrea, la cui formazione è combattuta tra il desiderio di andar via e l’amore per un cucciolo di volpe trovato accanto alla madre finita in una tagliola.
Guido Conti, il suo romanzo è un grido d’allarme per una situazione problematica?
«Quello che racconto è tutto vero: gli uomini avviliti e gli animali impazziti, i tassi che scavano le tombe nel cimitero di Montù Beccaria in provincia di Pavia per cercare ristoro dal caldo. È successo nel 2017 e 2018, due anni in cui è piovuto poco e male, ed è stata la ragione per cui ho voluto raccontare di un territorio del quale nessuno quasi mai parla: l’Italia collinare, una via di mezzo in cui ora è difficile vivere. Le questioni climatiche hanno creato una serie di problemi che ho cercato di rappresentare nella lotta fra uomini e animali, raccontando così i disagi che gli agricoltori devono affrontare».
Le difficoltà lamentate da Pietro, il padre del suo protagonista, Andrea, diventano sempre più pressanti?
«Le piccolissime aziende familiari fanno una fatica tremenda a stare in piedi. Nelle zone di produzione del parmigiano, stanno scomparendo le piccole fattorie con una quarantina di capi perché non ce la fanno più economicamente. Vengono allevate delle mandrie dentro capannoni giganteschi con dentro duemila-tremila vacche: si sta industrializzando il modo di produrre il latte. La cosa è ancora più difficile nel mondo del vino, dove le piccole aziende hanno sempre più difficoltà: la siccità, i raccolti ridotti rendono sempre più difficile la sopravvivenza. I cinghiali sono aumentati in modo sproporzionato e nelle vigne fanno dei veri disastri. Di questi animali selvatici si parla solo quando entrano nelle città per mangiare i rifiuti, ma nell’Oltrepò vanno a mangiare l’uva matura nelle vigne creando danni seri. Molte vigne sono state abbandonate e andando in giro si vedono campi di filari secchi e desolati. L’unica consolazione è che molti giovani vogliono tornare alla terra prendendo in mano le redini delle piccole aziende dei padri o dei nonni».
Le troppe difficoltà sono alla base dello spopolamento di molte zone collinari e montane?
«L’abbandono delle colline e delle terre alte dove una volta si praticava l’agricoltura, nel giro di sessanta, settant’anni ha favorito la ricrescita dei boschi. L’abbandono dei paesi, dà la possibilità agli animali selvatici di crescere a dismisura: sono tornati gli istrici che non si vedevano da secoli, e si sono insediate razze di uccelli non autoctone. A Pavia sono arrivati i pappagalli e sono sparite le rondini. La natura ha lanciato i suoi segnali dieci anni fa, molto prima che gli eventi precipitassero e ci trovassimo di fronte a una situazione complicata. Arriveranno anche i lupi perché aumentano le prede. Sarà un Eden meraviglioso, ma che rischia di progredire con grande disordine».
La siccità, da come la racconta, sta diventando una specie di castigo biblico?
«Non piove e quando piove, lo fa ma in modo sbagliato causando alluvioni. I cambiamenti climatici sono diventati fenomeni estremi in maniera sempre più ravvicinata e si alternano perché non c’è una regolarità. Dopo tanto tempo senza pioggia il terreno diventa cemento, non assorbe. E non c’è una politica di salvaguardia. Una volta, trenta, quarant’anni fa, c’erano i fossi che trattenevano l’acqua. Ai confini delle province di Alessandria e Pavia non esistono più le lanche fluviali collegate al Po. È stato fatto un lavoro sbagliato e adesso ne paghiamo le conseguenze».
I cambiamenti climatici di questo passo sono destinati a peggiorare?
«Questo è un grande mistero. Ci sono stati momenti di grande regolarità tra il 1200 e il 1300 che hanno fatto fiorire l’Europa; invece nel 1400 ci sono state delle glaciazioni che hanno creato degli scompensi enormi nella popolazione favorendo l’imperversare di molte malattie. In tempi lontanissimi, nella pianura padana c’era il mare e questo significa che il clima cambia continuamente sulla terra. Il problema è che negli ultimi tempi sta cambiando alla velocità della luce creando degli scompensi sempre più difficili da affrontare. Attualmente è in atto una specie di mix tra cambiamenti naturali di cui non si conoscono i meccanismi, e l’inquinamento disastroso per colpa dell’uomo. È una problematica aperta e non si sa che cosa succederà».
Il Po in secca è un richiamo a fare presto per cambiare metodi di vita?
«Non solo il modello di vita, ma il modello di business. Ho cercato di raccontare la mancanza di sacralità nei rapporti con la terra, nel senso che deve essere rispettata anche quando la si usa, e non sfruttarla eccessivamente, non stressarla per guadagnare di più. Il tema del rapporto sacro con il suolo porta anche a non buttare sottoterra dei rifiuti creando inquinamenti incontrollabili. Se non si ha rispetto per la terra, non si ha rispetto per l’uomo, il futuro, l’acqua. Se la terra soffre, soffriamo anche noi. Se il bosco ha sete anche la nostra anima ha sete. L’aridità è nell’anima delle persone. Se muore il Po, muore anche tutta la pianura padana».
Francesco Mannoni
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