LA MORTE E IL GIALLO
Solo. L'hanno ritrovato senza vita in quell'appartamento di Forlì che era diventato il suo rifugio. Ha sempre lasciato il mondo fuori, Ferdinando Carretta. Anche quando, da ragazzo, si chiudeva nella sua camera di via Rimini, isolandosi dalla famiglia. Dal padre, dalla madre e dal fratello che pian piano diventeranno i «nemici» da eliminare. Giuseppe Carretta, 53 anni, padre duro e impiegato modello alla Cerve; Marta Chezzi, 50, la madre dolce e indulgente; Nicola, 25, il fratello che anestetizzava i suoi demoni nella droga: li aveva ammazzati tutti nella casa di via Rimini 8 con una 6,35 la sera del 4 agosto 1989.
Era uscito dalla camera per scaricare le sue ossessioni a colpi di pistola. Facendo poi sparire i corpi. Era fuggito in Canada e subito dopo a Londra: quasi dieci anni da eremita. E dopo l'arresto, l'assoluzione al processo per totale incapacità di intendere e volere, era finito in ospedale psichiatrico giudiziario a Castiglione delle Stiviere. Ma era rimasto lo stesso Ferdinando: un essere guardingo e solitario. Era così, il 7 dicembre 1999, quando lo incontrai per la prima volta nell'ospedale psichiatrico giudiziario di Castiglione delle Stiviere. Uno spazio glaciale, la sua stanza. Tutto in un ordine così perfetto da togliere il fiato. Non aveva più quei tic che gli facevano toccare con insistenza il mento e la fronte. «Penso di riuscire a costruirmi un futuro», mi aveva detto. Ma se cercavi di approfondire, di strappargli qualche parola in più, si chiudeva.
Diploma da ragioniere, qualche lavoro saltuario, Ferdinando è sempre scivolato via senza lasciare traccia. Anche quel 4 agosto 1989, giorno in cui tutti i familiari sarebbero dovuti partire in camper per tre settimane di ferie tra Spagna e Tunisia, lui non li avrebbe seguiti in vacanza. Ma di tutta la famiglia non si seppe nulla fino al novembre 1998, quando Carretta fu fermato a Londra mentre con il suo scooter da pony express imbucava un senso vietato. Si precipitarono gli investigatori da Parma e il collega Matteo Montan, il primo ad incontrarlo. «Trovato uno dei Carretta», titolò la Gazzetta uscendo il 24 novembre 1998 in edizione straordinaria.
Un mistero che cominciava a dipanarsi dopo anni di presunti avvistamenti tra Sudamerica e paradisi caraibici. Una luce sul giallo sembrò accendersi il 19 novembre 1989, quando il camper (vuoto) della famiglia era stato ritrovato in viale Aretusa a Milano, e a fare il sopralluogo arrivò un giovane Antonio Di Pietro. Ma Ferdinando, a Londra, continuava a tacere in quei primi giorni. Finché, una settimana dopo, davanti alle telecamere di «Chi l'ha visto?» , confessò l'abisso: «Ho preso quella pistola e ho sparato ai miei genitori e a mio fratello». Parole che parevano fluire in modo meccanico, didascalico. Il padre - raccontò - venne colpito nello sgabuzzino: era lui il suo bersaglio, la figura al centro delle sue ossessioni. Ma quando la madre era accorsa, anche lei era stata uccisa. Poi toccò a Nicola, il testimone che forse avrebbe potuto sbarazzarsi di lui.
Furono quelle le ultime ore di Ferdinando a Londra. Rientrato a Parma, raccontò la sua verità anche davanti al pm Francesco Saverio Brancaccio rispondendo soprattutto alla domanda che tutti si facevano: dove sono i corpi? Li aveva caricati nel bagagliaio della Croma del padre portandoli poi nella discarica di Viarolo. Quella è rimasta sempre la sua unica verità, nonostante gli scavi non abbiano portato mai a nulla. L'unica traccia nella casa di via Rimini la trovò il Ris: uno sbaffo di sangue misto maschile e femminile compatibile con quello dei Carretta dietro il portasapone della vasca da bagno, dove Carretta disse di aver adagiato i corpi dopo il massacro.
Una manciata di giorni in carcere, nel 1998, il tempo per consentire al giudice di firmare il suo trasferimento in ospedale psichiatrico giudiziario. E per la legge Carretta diventerà un assassino senza colpe: assolto dalla sua follia. Era il 15 novembre 1999. Nel 2008 ereditò anche la casa della strage, che poi ha rivenduto. Il giorno della firma, davanti al notaio fingeva tranquillità. Così mi era parso. C'era un po' di imbarazzo in quello sguardo. In quelle parole garbate, ma pronunciate con la fretta di uscire di scena. «A dire il vero, ho avuto molti dubbi - disse -. Ci ho ripensato più volte, perché so che il pericolo è quello che io sia sempre ricollegato a ciò che è accaduto. Ma poi ho deciso di mantenere inalterato l'accordo, perché già da alcuni mesi avevo raggiunto l'intesa con mia zia Paola».
Dal 2015, dopo quasi 17 anni tra ospedale psichiatrico e comunità, Carretta era sostanzialmente libero, dopo che anche alcune restrizioni erano state revocate. Investendo parte dei soldi dell'eredità, aveva acquistato l'appartamento di Forlì. Aveva lavorato anche per la cooperativa che si occupa della raccolta rifiuti in città. Ma negli ultimi anni ha cercato sempre più l'oblio. Anche con la zia Paola, con la quale ogni tanto si sentiva, non raccontava quasi nulla di sé. E alla domanda ineludibile “dove sono i corpi”, ha continuato a ripetere: «Lo so, mi rendo conto che da questo punto di vista rimane un caso “insoluto”. Ci penso ogni giorno. Ma se mi si chiede perché non sono stati trovati, non so cosa rispondere», mi disse qualche anno fa.
Se ne è andato senza aggiungere altro. Insieme ai suoi fantasmi. Chiuso nel nuovo bunker che aveva scelto.
Georgia Azzali
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