Intervista
Un silenzio lungo 25 anni, con tantissimi «no» ad altrettante richieste di interviste, articoli, rievocazioni. Ma questa volta, ora che la morte di Ferdinando Carretta ha chiuso definitivamente il più appassionante e intricato caso di cronaca nera di sempre, Matteo Montan accetta di raccontare il suo Ferdinando Carretta, dai primi articoli sulla scomparsa della famiglia, quando era stato assunto da pochi mesi in «Gazzetta» come praticante, allo scoop che ha segnato la sua carriera di giornalista. Fu lui a ritrovare Ferdinando a Londra (e la «Gazzetta» uscì con un’edizione straordinaria che andò a ruba), fu lui il primo a intervistarlo, a dare notizia dell’ordine di cattura. E fu ancora lui il primo a raccontare la confessione, una notte nella caserma dei carabinieri di San Pancrazio (altra edizione straordinaria della «Gazzetta», l’ultima della nostra storia. Lo scoop gli valse il “Premiolino” (1998) e il premio “Cronista dell’anno” (1999).
Partiamo da un ricordo indelebile: 23 novembre 1998, la «Gazzetta» esce con un’edizione straordinaria e un titolo a caratteri cubitali: «Trovato uno dei Carretta».
«Be’, tutta la vicenda Carretta è l'elemento indelebile della mia carriera giornalistica. Probabilmente anche la ragione della sua fine».
In che senso?
«Con quel “colpo”, e con l'intervista di due giorni dopo, è come se avessi considerato chiuso – diciamo così – il mio mandato. Poco dopo ho lasciato il giornalismo per un’avventura manageriale».
Una sorta di appagamento?
«In un certo senso, sì. Tu sai bene che straordinaria importanza abbia avuto il caso Carretta per tanti anni. È ovvio che il ricordo di quell’edizione straordinaria, di tutti i momenti che l’hanno preceduta, dell’intervista sono momenti indelebili, anche un quarto di secolo dopo. Io attribuisco a questa vicenda anche un valore privato e personale: ed è una delle ragioni per cui, in 25 anni, non ne ho mai più parlato».
Qual è stato il segreto dello scoop? Erano stati tanti i giornalisti, non solo della «Gazzetta», che negli anni si erano occupati del caso Carretta: ma l’hai fatto tu.
«Ho avuto tenacia nel seguire la vicenda, non ho mai mollato. Un po’ perché mi sono da subito innamorato di questa storia, un po’ perché, da cronista di giudiziaria, era il mio pane. E questo ha fatto sì che mi sia trovato nel posto giusto al momento giusto. Avevamo sognato in tanti, per anni, di trovare la soluzione del caso, ma nessuno sapeva se il sogno si sarebbe mai realizzato».
Facciamo un salto indietro: 4 agosto 1989, viene denunciata la scomparsa della famiglia. Comincia tutto da lì.
«Ero stato assunto in “Gazzetta” da poche settimane, ho cominciato a occuparmi del caso da subito, insieme ad altri colleghi. Tra l’altro, Corrado Corti mi aveva gentilmente ceduto l’ambitissima corrispondenza del “Corriere”: ricordo ancora il mio primo pezzo sul quotidiano di via Solferino, proprio sul caso Carretta. Si è capito presto che quello era un gran bel caso giornalistico. Ma non ancora che sarebbe diventata la storia parmigiana di maggiore impatto di tutti gli anni Novanta e, forse, di sempre».
La sera del ritrovamento del camper, durante «Chi l’ha visto?», ha rappresentato un passaggio fondamentale.
«Certo. Con Di Pietro, che ancora non era nessuno, magistrato di turno. E che dice da subito “secondo me sono morti”. Prima ancora, il ruolo di cassiere del padre, che evocava immediatamente la possibilità che con la cassa che gestiva potesse essere scappato. O il fatto che i primi a entrare nell’appartamento di via Rimini fossero stati i colleghi di Giuseppe, che avevano fatto aprire la cassaforte».
Tutti elementi molto golosi per un grande caso di giornalismo investigativo.
«Come no. Tutti elementi formidabili per una grande storia perché, per anni, hanno fatto volare l’immaginazione: e infatti ci sono state lunghe fasi di grandissimo entusiasmo. Poi, però, è subentrato un senso di frustrazione».
Perché?
«Perché non si trovavano nuovi particolari, nuovi indizi. Ogni 4 di agosto bisognava tornare a parlare del caso, io lo ricordo un po’ come un incubo. Sembrava avessimo scoperto tutto ciò che si poteva scoprire: che famiglia era, i problemi dei figli, il rapporto con le zie, eccetera. Poi, a un certo punto, è cominciata la “fase tropicale” del caso».
Con presunti avvistamenti a tutte le latitudini.
«Sì. Il primo che ricordi era una voce: “Sono sull’isola di Margarita”. In quei giorni ero casualmente in vacanza ai Tropici: mi hanno chiamato dal giornale: “Vai subito”. Mi sono precipitato all’aeroporto, ma ho scoperto che, pur essendo molto vicino, avrei impiegato più tempo a volare a Margarita che partendo dall’Italia. E così è partito da Linate Francesco Monaco, che ha scoperto in fretta che si trattava di una bufala. La prima di tante».
Poi c’è stata la bufala delle Barbados.
«Bellissima, me la ricordo bene. Eravamo nell’aprile del ’96. In questo meccanismo onirico di immaginarsi dove fossero i Carretta, erano spuntati dei biglietti della British Airways per le Barbados, datati agosto ’89, con i nomi dei Carretta. Sono partito subito: e una sera ero assolutamente convinto di averli trovati».
Com’è andata?
«Sull’elenco telefonico c’era un “Carreta”, con una “t” in meno. Non rispondeva al telefono, ma ho individuato la zona in cui risultava abitare e sono andato, con un’auto a noleggio e una guida. Una sera, in una strada sperduta e polverosa, nel buio mi sono imbattuto in una donna che sembrava la fotocopia di Marta Carretta. In inglese, mi ha detto “cerchi Marta?”. “Sì”. “Torna in albergo e ti contattiamo noi”. Sono subito tornato in albergo, ho chiamato Luciano Pecorari, che allora era il capocronista, e gli ho raccontato tutto, con entusiasmo. “Stai attento”, si è raccomandato».
La telefonata non è mai arrivata.
«No. Si è capito così che era l’ennesima bufala, che i biglietti erano contraffatti. E che quella signora dai capelli grigi, curiosamente simile a Marta Carretta, era una sorta di emissario locale di un personaggio che era sbarcato a sua volta a Barbados, sulla scorta dei fantomatici biglietti, portandosi dietro anche un inviato della Rai».
E si arriva all’autunno del ’98.
«Sì, dopo un’altra bufala: un avvistamento dei Carretta in un ippodromo a Caracas, al quale il “Carlino” aveva dedicato l’intera prima pagina. L’ennesima fake news, come diremmo oggi. Nel frattempo ero stato promosso capocronista, avevo meno tempo per seguire operativamente gli sviluppi. Ma naturalmente non ho mai mollato il caso Carretta».
Siamo alla “storica” telefonata.
«Una sera porto al circo in Cittadella mia figlia Isabella, che aveva quattro anni. Suona il mio cellulare: è la “telefonata della vita”. “Ferdinando Carretta è a Londra”».
Chi era all’altro capo?
«Questo non lo dirò mai. Non l’ho mai detto a nessuno in 25 anni, tranne a Giuliano Molossi, il mio direttore di allora. Evidentemente, in tanti anni di lavoro investigativo mi ero creato tante fonti. Ha pagato la mia tenacia».
Cosa hai fatto?
«Finito lo spettacolo, ho portato mia figlia a casa e sono volato al giornale. Sono entrato nell’ufficio di Giuliano e ho chiuso la porta. “So dov’è Ferdinando”. È rimasto di sasso».
E poi?
«Abbiamo deciso che fosse il caso di partire subito per Londra, per individuare la sua casa. Avevo avuto informazioni sommarie, tutte da verificare. In fretta, possibilmente, perché era ovvio che fosse una notizia bomba, da dare il più presto possibile. A Londra ho messo insieme tanti dettagli da essere certo che la notizia era vera. Sono tornato e mi sono precipitato di nuovo da Giuliano».
E lui?
«Abbiamo deciso che era il momento di procedere. Ha “blindato” la redazione, nessuno sapeva nulla, tranne Luciano Pecorari, nel frattempo promosso caporedattore, Francesco Monaco e te (chi scrive è buon testimone diretto, essendo stato a lungo “vice” di Montan in Cronaca, n.d.r.). L’uscita dell’edizione straordinaria del 23 novembre è stata un colpo memorabile, straordinario. E sono ripartito subito per Londra».
Ti sei mosso da solo o con gli investigatori di Parma?
«Sempre da solo. Ovvio che gli investigatori sono arrivati prima di me da Ferdinando. Io sono il primo giornalista che l’ha trovato e il primo che gli ha parlato».
Quando sei ripartito per Londra, c’era un solo obiettivo: braccare Ferdinando.
«Certo. Sono partito letteralmente piegato in due, per un colpo della strega. Tanti colleghi, intanto, mi cercavano, per avere informazioni: mia madre rispondeva a tutti che ero a letto per il mal di schiena. Invece ero diretto a Linate, dove avevo appuntamento con un fotografo che mi aveva indicato il direttore, Stefano Guatelli, che purtroppo non c’è più: era molto bravo, Giuliano aveva lavorato a lungo con lui, voleva uno esperto in situazioni di questo tipo, uno che non avrebbe sbagliato lo scatto».
Com’è andata?
«Abbiamo fatto tutto in gran segreto. All’arrivo a Londra, per esempio, ho tenuto il telefonino spento, perché avevo paura che si agganciasse a una cella e che potesse scattare la segreteria in inglese. A Linate un lungo brivido: al check-in c’era Beppe Severgnini, allora inviato del “Corriere” in Inghilterra, che conosceva il fotografo. “Cosa andate a fare a Londra?”. Per fortuna non sapeva nulla del “caso”, abbiamo dribblato la domanda, ma ci sono stati secondi di panico».
E a Londra come vi siete mossi?
«Abbiamo subito cercato un hotel e un servizio di limousine, per essere certi di poterci spostare in fretta e al sicuro. Alle 5 del mattino ho chiamato in camera un cameriere dell’albergo, perché mi facesse una puntura di Voltaren. Oggi mi fa sorridere: mi chiedo quale cameriere si prenderebbe la responsabilità di fare una puntura a un cliente. Poi siamo partiti per andare davanti alla casa dove viveva Ferdinando, in un sobborgo un po’ fuori Londra, abbiamo parcheggiato davanti al condominio e ci siamo messi ad aspettare».
E poi?
«Non sapevo quale fosse il suo appartamento. Avrebbe potuto uscire di casa, oppure no. Siamo stati fortunati. Quando ho visto un ragazzo con un sacchetto della spazzatura ho capito immediatamente che era lui. Nonostante di Ferdinando ci fosse una sola fotografia in circolazione, peraltro scattata come minimo nove anni prima, probabilmente dieci-dodici anni prima».
Come l’hai avvicinato?
«Sono sceso dall’auto, mentre Guatelli è rimasto a bordo, scattava attraverso il finestrino. L’ho avvicinato e gli ho chiesto in inglese se conoscesse un ragazzo italiano che si chiamava Carretta. Mi ha guardato, ha risposto con un “no” secco e si è incamminato. Gli sono andato dietro e sono passato all’italiano: “Guarda che lo so che sei Carretta”. A quel punto si è girato, e Guatelli ha scattato la famosa fotografia. “Cosa vuoi da me? Lasciami in pace”, mi ha detto con cadenza parmigiana. Quello è stato il momento clou».
Poi l’hai convinto a salire sull’auto.
«”Solo poche domande”, gli ho detto, mentendo clamorosamente. “Ma cosa vuoi che ti dica?”. “Tutto”».
Quanto è durata l’intervista?
«Una mezzoretta. Ho avuto da subito la sensazione di una farsa. Capivo, mentre parlava, che si stava consumando una farsa. Dava risposte che sembravano lette sui giornali, preparate. Ho riletto la mia intervista, in questi giorni: l’avevo definito “uno studente ben preparato”. Ho continuato a fare domande, cercando di farlo parlare il più possibile. Guatelli è tornato sull’auto, ha scattato il primo piano. Ferdinando era molto infastidito dai clic della macchina fotografica, poi si è calmato. A un certo punto ha messo una mano in tasca. A quel punto, io ero praticamente certo che avesse ammazzato i genitori e il fratello. A mente fredda, avrei potuto temere che tirasse fuori una pistola. Ma non ho avuto paura, giuro: non ricordo un momento di paura o di incertezza in tutta quella lunga sequenza, mi sembrava di essere un automa, tanto ero motivato, dopo nove anni di rincorsa a un sogno».
Ferdinando non ha confessato, quel giorno.
«No, ha continuato a dire che non sapeva che fine avesse fatto la sua famiglia. Purtroppo, la nostra Mercedes nera dava molto nell’occhio, in quel sobborgo popolare. L’autista malese sembra il palo di una banda di sicari. Così, si sono avvicinate più volte auto della polizia: Ferdinando era sempre più teso. A un certo punto, ho detto all’autista di mettersi in marcia. Al primo semaforo si è avvicinato un poliziotto e ha chiesto i documenti. E Ferdinando è scappato».
Come?
«Ha aperto la portiera, è sgusciato fuori, si è buttato in una siepe ed è scomparso. E a me è rimasto il cruccio di non avergli potuto fare l’ultima domanda, guardandolo negli occhi».
«Hai ucciso tu i tuoi genitori e tuo fratello?».
«Certo. A quel punto, comunque, io ero già più che convinto. Tant’è che il giorno successivo, dopo aver pubblicato l’intervista, siamo usciti con la notizia dell’indagine per triplice omicidio».
Siete rientrati subito a Parma?
«Finita in modo così rocambolesco l’intervista, ho chiamato il direttore e abbiamo convenuto che fosse bene rientrare subito, anche per portare al sicuro i taccuini e i nastri del mio registratore. Sai, in una nuvola di poliziotti, in un paese straniero, tra maniaci della privacy, era meglio portare a casa l’intervista. Nel tardo pomeriggio ero a Parma. E l’ingresso in redazione… (si commuove, n.d.r.) be’, quello per me resta ancora oggi il momento più bello di tutta la vicenda. Tutti i colleghi in piedi ad applaudirmi. Indimenticabile. E, in un certo senso, fine della storia».
Be’, non proprio. Poi ci sono stati l’altro scoop della confessione, con un’altra edizione straordinaria, la ricerca dei cadaveri, il processo.
«Sì, ma dopo essere stato con Carretta, su quell’auto, aver capito cosa aveva fatto, aver consegnato e pubblicato l’intervista, ho avuto una sorta di senso di appagamento. Quello che dovevo fare, l’avevo fatto. Certo, sono seguiti giorni di lavoro forsennato, tutti gli inviati sono piombati a Parma, la redazione della “Gazzetta” sembrava un set a tempo pieno. Sono stati giorni anche brutti, con gelosie e invidie nate per motivi incomprensibili che mi sono spiaciute tanto. E anche colpi bassi e amicizie che si sono rotte, ma a questo preferisco non pensare, ci ho messo una pietra sopra».
Un po’ di invidia, per Pino Rinaldi di «Chi l'ha visto?» che ha filmato la confessione davanti alle telecamere?
«No, anche perché le circostanze non mi hanno permesso di fare quell’ultima domanda: ma sono abbastanza convinto che Ferdinando non mi avrebbe risposto dicendo la verità, così come non l’ha detta alle decine di giornalisti che, nei giorni successivi all’uscita della mia intervista, hanno parlato con lui. La Rai ha poi giocato la sua partita, che era la partita di chi aveva disponibilità, una troupe, la possibilità di stare a Londra, di convincere Ferdinando ad andare in un albergo. Non si è mai capito se lo abbiano pagato o meno, io non lo so. Era un altro approccio, rispetto al nostro. Detto ciò, quella puntata rappresenta uno dei momenti più impressionanti della storia della televisione italiana, con quell’immagine a tutto schermo di Ferdinando con le mani sulle tempie. «Chapeau» per averlo fatto. Lì per lì, non ho mai avuto la sensazione che avesse “rovinato” il mio scoop e non lo penso neanche oggi. Resto molto orgoglioso di quello che ho fatto e dei riconoscimenti che sono seguiti».
A cominciare dal “Premiolino” e dal premio “Cronista dell’anno”.
«Sì, due grandi soddisfazioni. Del primo mi ha colpito molto favorevolmente la motivazione, che citava quanto può essere di alto livello il giornalismo locale; dell’altro, il fatto che mi sia stato consegnato dal Presidente della Repubblica Ciampi».
Ricordi ancora i complimenti ricevuti?
«Come no. Il più commovente, quello di mia figlia Isabella. Quando sono tornato a casa dopo la prima edizione straordinaria mi ha accolto nel lettone: “Papà, hai trovato Carretta?”. Gliel’aveva spiegato mia moglie, mi sono sciolto. E poi quelli di tantissimi colleghi e direttori».
E lì hai deciso di chiudere con il giornalismo.
«Più o meno sì. Per certi versi a malincuore: mia madre e mio zio Luca Goldoni me lo rinfacciano ancora. Da una parte avevo ottenuto quello che volevo, dall’altra più di così era difficile fare. Io sono nato e cresciuto sognando di fare il giornalista, figlio e nipote di giornalisti. A quel punto avrei potuto sperare di fare il grande salto, di andare al “Corriere”. Per una serie di motivi non ci sono andato. E poco dopo, nel 2000, nel pieno della bolla di internet, mi sono buttato nell’avventura di Buongiorno. Pochi mesi più tardi, mi ha chiamato il “Corriere”, per andare da loro, a qualsiasi condizione. Ho detto di no, è stata la mia “sliding door”».
Pentito?
«Sì e no. Di sicuro, tra le tante cose che ho fatto, questa dei Carretta è stata la più bella e la più emozionante. Ho avuto tante altre soddisfazioni: a Buongiorno abbiamo inventato tante cose, fatto succedere cose, fatto crescere aziende. Poi, da amministratore di gruppi editoriali, ho avuto e sto avendo tante soddisfazioni. Ma quella è la cosa che ho fatto meglio. Forse hanno ragione mia mamma e mio zio a dire che è un peccato che non faccia più il giornalista».
Mai più sentito Ferdinando?
«No, mai. Ci siamo parlati mezz’ora quel giorno ed è finita lì. Quando ho saputo della sua morte, umanamente mi è dispiaciuto, anche perché, pur non avendolo mai più rivisto, è stato una presenza nella mia vita. E ho pensato che fosse giusto rompere un silenzio così lungo e per certi versi innaturale».
Con la «Gazzetta», ovviamente.
«Che discorsi. Non avrei potuto farlo se non per la “nostra” cara vecchia “Gazzetta”».
Claudio Rinaldi
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