40 anni fa il delitto del Federale
Sfoglia il capitolo più dolente della sua vita. Pagine ingiallite di una «Gazzetta» in bianco e nero che lo catapultano al 1º luglio 1983. E' la storia di suo fratello Stefano, il ragazzone ucciso a 17 anni da un gruppo di giovani al Federale, il campo sportivo di San Lazzaro. E' la sua storia: Sandro è l'ultimo rimasto della famiglia Vezzani. Nel 2011 se ne è andata improvvisamente l'altra sorella Stefania, la piccola grande donna che vegliava su tutti, pochi mesi dopo si è spento papà Ugo, ex operaio alla Barilla, e nel 2020 è morta anche la mamma Marisa, a lungo dipendente di un'impresa di pulizie. Ha ereditato i ricordi, Sandro, due anni e qualche mese meno di Stefano. Quel dolore con cui non riesce a fare pace. «Sono passati quarant'anni, ma non ho superato ciò che è successo. Ci siamo spesso sentiti soli, anche se alcune persone ci sono sempre rimaste vicine. Il perdono? Non me la sento di fare questo passo, anche perché non ricordo che qualcuno si sia fatto avanti con la mia famiglia in tutto questo tempo e ho visto i miei genitori annientarsi».
E' diventato il delitto del Federale. Ma a tanti sfugge perfino il nome il nome di quel ragazzo di 17 anni dagli occhi buoni, morto ancora prima di sedersi sugli spalti per vedere una partita della Coppa dei bar. Stefano Vezzani, studente dell'Ipsia, preferiva il baseball al calcio, ma quella volta aveva comunque seguito la compagnia per vedere altri amici del quartiere Montanara che giocavano nell'Autoscuola Bottego. «Quella sera si sono concatenate una serie di circostanze bizzarre e sfortunate. Mio fratello si era attardato perché qualche amica, per scherzo, gli aveva legato una gamba a una panchina vicina a casa. Poi, quando avevano sbloccato il lucchetto, lui aveva scambiato la sua moto con quella di un amico per andare al campo». E all'arrivo era cominciato quell'insensato conto alla rovescia. «Stefano si era attardato, perché aveva fatto fatica a chiudere il lucchetto della moto dell'amico. E gli altri della compagnia erano andati avanti per raggiungere le gradinate. Un gruppo di ragazzi aveva cominciato a urlare, erano partiti degli insulti e poi qualcuno gli aveva messo davanti al viso una bandiera della squadra di San Lazzaro. Lui si era limitato a spostarla con la mano, ma a quel punto era partita l'aggressione: calci e pugni. Una cosa brutale». La voce si incrina. «E' stato portato all'ospedale, ma forse era già morto».
Sandro era poco più che un bambino. Ma è come se quel campanello, poco dopo la mezzanotte del 1° luglio di quarant'anni fa, risuonasse ancora nella sua testa: gli agenti che arrivano e si limitano a dire di andare con loro in ospedale, perché Stefano è stato ricoverato. «C'era anche Benedetto D'Accardi, il poliziotto che ci è rimasto sempre vicino, lo sento ancora. Così come sono stati straordinari Pietro Barilla e Albino Ivardi Ganapini».
Gli amici di Stefano e tante anime belle del quartiere Montanara hanno accompagnato la famiglia fin da quei primi momenti di disperazione e smarrimento. In sei, tutti minorenni, erano stati arrestati per la morte di Stefano, poi uno è stato scagionato. Per i cinque rimasti, l'accusa iniziale di omicidio volontario è stata derubricata in omicidio preterintenzionale, dopo il deposito della perizia medico legale. «Perché Stefano è morto per un arresto cardiocircolatorio, ma da cosa è stato causato? Se non fosse stato aggredito, non avrebbe avuto un infarto. Ricordo che si era tentato di smontare queste conclusioni». Ma alla fine il processo si era concluso con una condanna a 3 anni per tutti. «In carcere sono rimasti pochissimo: sono poi stati trasferiti in un appartamento in città, inseriti in un progetto di recupero. E va bene il recupero, ma il progetto deve essere fatto bene, invece non mi risulta che le cose siano andate così».
Stefania, la sorella maggiore, si è sentita tradita più di tutti dalla giustizia. «Lei ci contava e sperava. Io non ho mai più visto i cinque che hanno ucciso mio fratello, o se li ho incrociati, non li ho riconosciuti. Ma non so se li vorrei incontrare, anche se ultimamente mi è stato chiesto, nel caso qualcuno di loro fosse disponibile, in vista del progetto che si sta per realizzare».
Dal 2010 il parco davanti alla casa di famiglia di via Zanguidi porta il nome di Stefano, ma ora c'è anche un documentario messo in cantiere da varie associazioni e dalla parrocchia delle Sacre Stimmate. «E' veramente un bel progetto perché farà conoscere la storia di Stefano ai tanti giovani che non la conoscono. Saranno i protagonisti, perché dalla tragedia di mio fratello possa arrivare un messaggio direttamente a loro».
Sorride, Sandro. Un po' come se rivedesse Stefano e gli altri ragazzi del quartiere.
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