EDITORIALE
La scorsa settimana, gli scienziati hanno dovuto ritoccare per ben tre volte il record della temperatura media più elevata registrata (almeno strumentalmente) sulla Terra. La punta più alta è stata raggiunta venerdì 7 luglio con 17,24 gradi Celsius, superiore di 0,3 gradi rispetto ai 16,94 toccati nell’agosto 2016. Lì per lì, verrebbe da pensare che 17 gradi o poco più non siano poi così tanti se paragonati ai picchi rilevati di recente in Cina (42°) e più ancora in Libia (addirittura 52°). Grave errore! In questo caso, infatti, stiamo parlando non del dato riferito a una località o a una data singolarmente prese, bensì della temperatura media misurata nell’arco di un intero anno su scala globale. Inverni e Poli quindi inclusi. E siccome la temperatura media del pianeta viaggia normalmente intorno ai 15 gradi centigradi, ecco che il “salto” (2 gradi e non pochi decimali) di cui si è detto indica chiaramente che il livello di guardia è stato superato ampiamente. Che poi ciò sia avvenuto o stia accadendo per effetto del Niño (il periodico fenomeno di riscaldamento delle acque del Pacifico centrale e orientale che quest’anno si accanirà con particolare vigore anche sul Mediterraneo), oppure del riscaldamento generato dalle attività umane, è un dilemma a cui risulta sempre più difficile appassionarsi. Per la semplice ragione che non bisogna essere certo dei Premi Nobel del clima o della meteorologia per capire che il pericolo, in realtà, proviene da ambo i fronti e non riguarda solo le aree storicamente più arretrate del pianeta.
Nell’estate 2022, finora la più rovente di sempre in Europa, il caldo ha fatto nel Vecchio Continente qualcosa come 61mila morti, 18mila nella sola Italia (che guida la terribile classifica pubblicata sull’ultimo numero della rivista Nature). E c’è da rabbrividire (non certo di freddo) di fronte ai nuovi record termici che proprio in questi giorni stanno cadendo uno dopo l’altro come birilli sotto la spinta feroce di Cerbero, l’anticiclone ribattezzato con il nome del mitologico cane a tre teste che nel VI Canto dell’Inferno Dante ci presenta intento a straziare con i suoi artigli infuocati le anime dei dannati: l’immagine perfetta dello strazio inflitto dalla siccità al nostro Paese (6 miliardi le perdite annue nel solo comparto agricolo) nonostante che l’Italia sia il terzo Paese in Europa per abbondanza d’acqua (dopo Svezia e Francia). Un vantaggio vanificato, però, da una posizione nuovamente da primato per quanto riguarda lo spreco delle risorse idriche (40% di perdite dagli acquedotti) e da una diffusa propensione a ritenere che sia possibile salvarsi da un “mostro” stavolta bicefalo (ormai dovrebbe risultare chiaro a tutti che siccità e alluvioni sono perfettamente complementari fra loro) a forza di chiacchiere e di promesse regolarmente disattese.
Proprio fra oggi e domani, si tiene a Parma una due giorni di studio e di confronto sull’acqua da cui sarebbe illusorio aspettarsi soluzioni che nessuno a livello mondiale è ancora riuscito a individuare. Non di meno, è lecito attendersi qualche passo avanti circa le scelte di fondo da compiere - adesso e non domani - in una regione che è stata appena devastata dall’alluvione e che rappresenta il cuore agroalimentare del Paese, per non dire d’Europa. Prendiamo un tema di cui si è tornati finalmente a parlare superando un tabù protrattosi per decenni: invasi e dighe. Benissimo. Ma allora quanti (o quante), dove, per fare cosa e soprattutto quando e con che soldi? Si tratta di interrogativi per nulla oziosi o astratti. Da Parma, ad esempio, è partita la proposta di utilizzare le casse di espansione (sul nostro territorio ne esistono due, una delle quali non ancora ultimata sul Baganza) anche per uso irriguo così da mitigare l’effetto della siccità sulle attività agricole soprattutto nella stagione estiva. Secondo altri, invece, al fine di immagazzinare l’acqua necessaria per i diversi usi agricoli, industriali e civili, sarebbe preferibile puntare sulla costruzione di una diga in quel di Armorano, nei pressi del comune di Calestano, che potrebbe funzionare anche da presidio di sicurezza in caso di eventi atmosferici estremi (il modello è quello della diga di Ridracoli in Romagna). Tocca naturalmente prima agli esperti e poi alla politica di fare un po’ di ordine e di chiarezza. Tenuto conto che sullo sfondo resta aperta la questione pluridecennale della diga di Vetto: un’opera oggi più che mai cruciale, ma tuttora avvolta dalle nebbie visto che l’annunciato finanziamento di uno studio di fattibilità non ha avvicinato di un solo centimetro o minuto secondo il fatidico taglio del nastro. Sempre a voler stare con i piedi per terra, si potrebbe anche osservare che l’ipotesi di realizzare sul nostro territorio da qui ai prossimi anni non una, ma addirittura due dighe (Vetto e Armorano) richiama assai da vicino il miracolo evangelico della moltiplicazione dei pani e dei pesci.
Sta di fatto che le sfide senza precedenti che abbiamo di fronte non consentono più rinvii o divagazioni di sorta. Pure l’eterna rissa ideologica fra il partito della sostenibilità ambientale e quello del Pil ha stancato. Eccome, se ha stancato! Tanto che ci sarebbe da chiedersi cosa ne penserebbe Acamar, l’Homo sapiens il cui cranio è stato rinvenuto nel letto inaridito del Po da un paleoantropologo della Università di Parma, il professor Davide Persico, non nuovo per altro a simili ritrovamenti. I misteri di Acamar sono ancora tutti da scoprire. Ma le circostanze del ritrovamento dei suoi resti hanno già fatto di lui una straordinaria finestra aperta sul nostro passato come sul nostro futuro. Difficile immaginarne uno minimamente accettabile finché non accetteremo di impegnarci in scelte coraggiose e al tempo stesso concrete e fattibili. L’unico modo per dimostrare di meritarci ancora la qualifica di “sapiens” lasciataci in eredità da quel nostro lontano antenato.
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