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Chi era vicino a casa, quando si avvertiva nell’aria «odore di temporale», abbandonava i campi e si riparava sotto al «pòrtogh» in attesa che Giovepluvio si sfogasse per poi salutare nuovamente il sereno estivo che si faceva annunciare da un variopinto arcobaleno («ärcbaléstor»). Anche in occasione dei temporali estivi i vecchi contadini seguivano ben precise liturgie e, ad ognuno, spettava il proprio compito. Il «nonón», dopo il caldo asfissiante dei giorni precedenti, ritmati dal «stufgàs», e cioè da quella foschia mattutina che nemmeno il sole riesce a trafiggere e che non fa muovere nemmeno una foglia, trovava conferma nelle antiche previsioni.
Infatti, prima del temporale, il micio di casa, lisciandosi il pelo con la lingua, se oltrepassava le orecchie con lo zampino, prevedeva pioggia. Un altro segnale che non sbagliava era dato dallo stazionare del rospo sulla strada: anche se il cielo in quel momento era sereno e terso, il giorno appresso ci sarebbe stata burrasca. La mosca poteva essere un ottimo indicatore atmosferico a seconda della sua noiosità: più era fastidiosa, maggiori si facevano le possibilità che cambiasse stagione e anche lo scorrazzare più veloce del solito dei ragni come il permanere delle api dentro l’alveare preannunciavano cattivo tempo. Nel pollaio era situata un’empirica «centralina meteo». Infatti, galli e galline, quando si profilava un cambiamento di stagione, diventavano più loquaci del solito e, specie i galli, con il loro «chicchirichì», come sostenevano le «rezdore», «ciamävon l’acua».
Inoltre, era segno di cambiamento di stagione quando si avvertiva più marcato il suono delle campane e più intenso si faceva «l’odór äd siss», oppure se il fumo del comignolo prendeva una direzione piuttosto di un’altra. Anche dal fuoco del camino si ipotizzavano previsioni : con una fiamma languida si poteva sperare nella pioggia, mentre il fuoco vivace con fiamma trasparente preannunciava bel tempo.
La luna, mitica e provvida consigliera dell’uomo dei campi, diceva la sua in fatto di previsioni. Infatti, l’anello che la circondava, se era lontano, indicava «pioggia vicina», se era vicino, assicurava «pioggia lontana».
Comunque, il segnale più importante dei «temporäl pramzàn» era il fatidico «Buz ‘dla Jacma» corrispondente ad una ben precisa parte del cielo che si scuriva preannunciando un temporalone con pioggia e grandine. E, proprio per scongiurare quest’ultima, in campagna, ma anche in città, le anziane, quando avvertivano i primi tuoni, bruciavano un rametto d’ulivo della Domenica delle Palme con la candela benedetta nel giorno della «Sarjóla» (Candelora) recitando litanie ed invocando Sant’Antonio Abate affinché proteggesse i loro campi e i loro orti dalla furia «dla timpésta». Terminato il temporale, dopo gli ultimi innocui brontolamenti della «tronàssa», il cielo si rischiarava nuovamente ed era quasi una festa poiché i ragazzi ritornavano a giocare nei cortili e nelle aie mentre le «rezdore», cesto in mano, «andävon par lumäghi» poiché era il momento in cui le lumache uscivano dalle loro tane per andare negli orti.
«Al Cantón äd la Jacma» o «Buz dla Jacma» rivelano un nome misterioso legato a leggende popolari tra il serio il faceto ed anche lo scurrile. Per alcuni anziani, questa strana locuzione, sarebbe riferita a una ben precisa parte anatomica di una brutta, vecchia e laida meretrice del primo contado. Una spiegazione più colta ed elegante fa riferimento, invece, alla tradizione secondo la quale l’«Angolo o il Buco della Giacoma» sia stata la direzione per iniziare il pellegrinaggio per San Giacomo di Compostela. La direzione sud-ovest nella nostra zona ci indirizza verso l'Appennino e le montagne che vanno verso la Liguria e, cioè, il percorso che seguivano i salmodianti pellegrini. La via, in onore di San Giacomo, venne poi chiamata «Via Giacoma» tradotta in «pramzàn», «Jacma». Ogni valle, ma anche ogni quartiere, aveva il proprio «Buz ‘dla Jacma» .
Per i bambini anni ‘50 del quartiere Cittadella il tempestoso nuvolone nero era indicato dalle nonne in quella porzione di cielo dalle parti dell’Orto Botanico. Per i valligiani della Val d’Enza e della Val Cedra, il «Buz ‘dla Jacma», era in direzione Passo del Lagastrello. Una curiosa leggenda, tratta dalla pagina Facebook «Scrivi anche tu in dialetto parmigiano» narra quanto segue. «Sembra che tanto tempo fa a Felegara vivesse una donna anziana chiamata Jacma. Nonostante questa donna fosse scorbutica e con un bruttissimo carattere, molte persone si rivolgevano a lei per avere consigli medicinali. L’anziana era infatti un’esperta di erbe e conosceva i rimedi per i malanni. A quel tempo le donne che avevano queste conoscenze erano considerate delle streghe e il reato di stregoneria era punito con il rovo. Jacma non venne esclusa da questa condanna. Saputo che il giorno dopo i soldati sarebbero arrivati alla sua casa per prenderla e giustiziarla, fuggì verso le montagne dopo Fornovo, verso la Cisa. Quando i soldati giunsero alla sua casa capirono che la donna se ne era andata. Nello stesso momento sollevarono lo sguardo al cielo e videro dei grossi nuvoloni neri provenire dalle montagne della Cisa verso Felegara. Pensarono immediatamente che le nuvole temporalesche erano mandate dalla Jacma per vendicarsi delle accuse contro di lei. Ecco perché, ancora oggi, quando sopraggiunge una perturbazione da quella direzione, si usa chiamare questo fenomeno atmosferico Èl büž äd la Jacma. Il buco della Giacomaa» (Gianni Bertoli zio Aramis).
Anche il giornalista scrittore parmigiano Giorgio Torelli, anch’egli come il cronista, ex «ragazzo della Cittadella», nel 1972 (Silva Editore) scrisse un libro, come sempre di successo, intitolandolo: «Il Buco della Giacoma».
Lorenzo Sartorio
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