A TRE MESI DALLA MORTE
L'ha perso e l'ha ritrovato. Lui è il nipote assassino, ma è anche il bambino che lei cullava, l'uomo che ha rincontrato dopo nove anni di silenzio e il volto straziato che ha dovuto vedere all'obitorio. Sono passati quasi tre mesi da quel 1° giugno, da quando una voce al telefono le diceva che Ferdinando, 61 anni ancora da compiere, era stato trovato morto in casa, nel suo bilocale-bunker di Forlì. E Paola Carretta ha riguardato tutto il film dei suoi ultimi 34 anni, scena dopo scena, immagine dopo immagine, da quel 4 agosto 1989, quando suo nipote ha sterminato la famiglia nella casa di via Rimini 8: il padre Giuseppe, la mamma Marta e il fratello Nicola, tre corpi mai ritrovati. La strage di cui nessuno sapeva nulla perché tutti erano convinti che fossero partiti per un mese di vacanza. E poi il vuoto, nove anni di smarrimento e interrogativi prima del ritrovamento di Ferdinando a Londra. «Perdonare? Non spetta a me. Ma posso dire di averlo capito per ciò che ha fatto. Non lo sto giustificando, però da quando l'ho rincontrato all'ospedale psichiatrico giudiziario, ho cominciato a comprendere il suo dramma e ho imparato di nuovo a volergli bene».
Ha rimesso insieme un puzzle intricato di emozioni e ha ripercorso la vita di Ferdinando: il bambino timido, l'adolescente riservato e il ragazzo sempre più chiuso in se stesso. Rifuggiva anche l'obiettivo della macchina fotografica: uno degli ultimi scatti che conserva ancora Paola è quello di una vacanza in montagna. Siamo nel 1973, Ferdinando ha 11 anni e sorride accanto alla madre, al padre e a Nicola. Poi le immagini insieme alla famiglia si diradano e due foto di soli cinque anni dopo mostrano la famiglia in vacanza in Liguria, ma Ferdinando non c'è. A quell'epoca è poco più che un ragazzino, eppure qualcosa si è già incrinato. In famiglia. Dentro di lui. «Io e anche le altre due zie (Adriana e Carla Chezzi, le sorelle della madre di Ferdinando morte negli anni scorsi, ndr) non sapevamo nulla dei suoi problemi, ma non potrò mai dimenticare ciò che mi raccontava mia madre quando per Natale andava a pranzo a casa di mio fratello. Mi diceva: “Anche quest'anno non l'ho visto”».
Non vedeva mai Ferdinando. Lui che passava intere giornate chiuso in camera, aprendo la porta solo per ritirare il piatto che gli veniva posato lì davanti. Sono gli anni in cui cominciano a prendere corpo i suoi fantasmi, durante i quali la famiglia si trasforma in una prigione soffocante. Il nemico sta crescendo nella sua mente, ma i genitori pensano forse di poter gestire i problemi. Il padre, Giuseppe, ragioniere meticoloso e attento alla Cerve, ma con un carattere piuttosto rigido, probabilmente ha anche difficoltà a riconoscere i problemi del figlio. Fino a quella che lo psichiatra Cesare Piccinini, perito nominato dal tribunale, definirà la «scena madre»: il padre che sorprende Ferdinando a urinare dentro ad alcuni bicchieri del salotto e gli urla, almeno secondo quanto racconterà poi il figlio, “te la farò pagare”. A quel punto, nel suo delirio, il padre diventa il rivale, l'ostacolo da eliminare per poter sopravvivere. «E' stato un percorso lungo, ma ho capito che in quel momento Ferdinando si sarebbe aspettato parole di comprensione, non quella reazione. E poi i suoi problemi sono esplosi. Così sono anche riuscita a comprendere il senso di quella frase terribile che aveva detto poi agli psichiatri durante le indagini: “Dopo quella sera dovevo uccidere mio padre per poter continuare a vivere”».
La sua follia esploderà anche sulla madre e il fratello, ma il numero di colpi maggiori sarà per il padre, ucciso nello sgabuzzino. Quando poi sopraggiunge la madre, spaventata da quei rumori, «deve» eliminare anche lei: «Un solo colpo, è caduta subito», aveva raccontato. E Nicola, che in quel momento non è a casa, viene ucciso quando rientra, «perché altrimenti, dopo aver visto quello che avevo fatto, mi avrebbe ammazzato», aveva poi spiegato. «Aveva anche detto che Nicola gli si era attaccato al collo, dicendo “ma cosa hai fatto?”, e lui ha dovuto sparargli più volte per finirlo. Nicola era molto più aperto di Ferdinando, ma non ho mai saputo dei suoi problemi di tossicodipendenza fino a quando non sono entrata in casa in via Rimini, nel settembre dell'89, dopo la scomparsa, e ho trovato alcuni documenti sui suoi ricoveri in comunità. Nonostante questo, però, Nicola ha sempre mantenuto i rapporti con la famiglia. “Loro erano uniti, mentre io non parlavo. Hanno provato ad aiutarmi, ma io non volevo”, mi diceva Ferdinando».
Una monade. Un estraneo in famiglia. Ma un paria anche nel mondo. Così si era sentito prima di uccidere, tanto da essere assolto per totale incapacità di intendere e volere, e forse così era rimasto anche dopo 15 anni tra ospedale psichiatrico giudiziario e comunità. E' morto a Forlì senza che nessuno se ne accorgesse, nella casa che aveva acquistato con i soldi dell'eredità, tra stanze immerse nell'incuria e nella desolazione. L'hanno trovato i carabinieri carponi in cucina, dopo che i vicini non lo vedevano da tempo, ucciso dalla leucemia e dall'abbandono. «Non posso dimenticare quell'enorme chiazza di sangue, quando il giorno dopo sono entrata in casa, ma soprattutto ciò che ho visto: sporcizia e ammassi di roba ovunque. L'avevo sentito qualche giorno prima e mi aveva detto che era a letto: era stato dimesso dall'ospedale, ma non stava bene e avrebbe dovuto fare delle iniezioni, delle terapie. Gli avevo anche domandato se avesse avuto problemi per l'alluvione: mi aveva risposto che era sempre a letto e non aveva nemmeno aperto le finestre. “Ma hai bisogno?”, gli avevo chiesto. E lui mi aveva rassicurato che se non si fosse ripreso, avrebbe chiamato gli assistenti sociali per farsi aiutare. Invece, è morto così, in totale solitudine».
L'ha rivisto sul tavolo dell'obitorio con il viso segnato da quell'ultima caduta sul pavimento della cucina. Eppure, Paola Carretta fa ancora fatica a realizzare che non ci sia più. Nemmeno dopo che qualche settimana fa è andata per la prima volta sulla sua tomba nel cimitero monumentale di Forlì. «Ho voluto che fosse sepolto in terra. Vedere la croce in legno e sotto la data di nascita e morte, mi ha turbato molto: non mi pare ancora vero. Ho chiesto alle pompe funebri di delimitare meglio la fossa, perché la terra era un po' smossa, e di aggiungere una targhetta in ottone con scritto semplicemente: “Tua zia”».
E' riuscita ad accantonare anche l'amarezza di quando nel 2002, tramite i suoi legali, Ferdinando gli aveva fatto arrivare una lettera in cui chiedeva il rendiconto della gestione dell'eredità, in particolare degli appartamenti di via Rimini e di via Campioni, intestati al padre Giuseppe, che lei aveva preso in carico nei nove anni di assenza. Paola e le altre due zie avevano fatto causa al nipote, ma poi si era arrivati a un accordo sulla spartizione dei beni: a Ferdinando era andata la casa di via Rimini, oltre che una somma depositata sul conto di famiglia. Per Paola Carretta era stato un po' come sentirsi sotto accusa, dopo quella lunga assenza senza riposte. Ma anche quel conflitto si è poi stemperato. «Ciò che invece non ho superato è il fatto di non aver ritrovato i corpi. Più volte l'ho chiesto a Ferdinando, sia all'ospedale psichiatrico di Castiglione sia in casa, in via Rimini, la prima volta che siamo entrati insieme. E lui mi ha sempre ribadito di averli portati a Viarolo, di averli appoggiati a terra e di averli ricoperti con un po' di sabbia. Ma se così fosse, credo che nel tempo almeno qualcosa sarebbe stato trovato di tre corpi. Non credo, però, che siano vivi da qualche parte, come ancora qualcuno pensa, piuttosto potrebbe aver gettato i corpi nella discarica vera e propria che allora c'era a Viarolo e poi sono andati distrutti. Una verità che forse non ha avuto il coraggio di rivelare».
Il segreto. Il non detto. E' la sensazione di cui Paola Carretta non riesce a liberarsi. Ma è tornata a vedere Ferdinando come lo guardava allora, quando lui era un bambino. «E' riemerso in me il bene che gli volevo prima», sussurra. Prima che Ferdinando naufragasse nel suo dolore.
Georgia Azzali
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