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NARRATIVA

Cinzia Leone: «L'amore scavalca i pregiudizi»

Cinzia Leone: «L'amore scavalca i pregiudizi»

di Barbara Notaro Dietrich

25 Agosto 2023, 03:01

Le parole. Quelle taciute, quelle recuperate, quelle vitali e quelle mortifere. Cinzia Leone, alla sua quarta prova da romanziera – il precedente meraviglioso libro è stato «Ti rubo la vita» (Mondadori), saga familiare e storica che si dipanava tra gli inizi del '900 e i giorni nostri – con «Vieni tu giorno nella notte» (pag. 420, euro 20), di nuovo per Mondadori, torna a esplorare l’animo umano, i rapporti familiari e sentimentali, gli odi e i rancori intimi e quelli di più ampio respiro che hanno a che fare con la religione, gli Stati e la politica. Figlia di madre ebrea e padre cattolico, conosce bene le contraddizioni e la bellezza di avere molteplici identità e dunque ha uno sguardo e una scrittura che tengono assieme quel che in apparenza assieme non potrebbe stare.

Come è nata l’idea di questo romanzo?

«Da un articolo che raccontava la fuga degli omosessuali dalla Cisgiordania in Israele, l’unico paese gay friendly del Medio Oriente. Non ne sapevo nulla e mi ha molto colpita. Avevo in testa di raccontare un amore che scavalcava i muri, un amore contrastato - lo si evince anche dal titolo, una frase da Giulietta e Romeo di Shakespeare – e mi son chiesta se fosse possibile che questi ragazzi arrivando in Israele si innamorassero di un israeliano. Grazie all’amica giornalista Sharon Nizza li ho incontrati e ho ascoltato le loro storie di violenza e persecuzione. Non compaiono nel romanzo ma l’ho dedicato a loro».

L’amore è dunque capace di abbattere i pregiudizi e la guerra?

«Oltre la guerra c’è la vita di tutti i giorni. “Vieni tu giorno nella notte” racconta l’imprevedibilità della vita e le sue molte verità spesso in contrasto. E un amore che scavalca molti muri: quello del pregiudizio, quello delle identità e quello reale che divide Israele e Palestina».

Il romanzo inizia con la morte di un giovane uomo, Ariel, un ebreo italiano che ha scelto in Israele come nuova patria. Lì già vive la nonna, Stella, fervente sionista che abbiamo conosciuto nel precedente romanzo. E dunque è anche una storia sulla perdita?

«Il romanzo inizia con la fine di una vita ma è un inno alla vita. Le persone non si perdono, siamo noi che pensiamo di averle perdute. Racconto la vita di chi resta e come il lutto può essere anche un motore di conoscenza. La madre di Arièl, Micòl, e tutti quelli che lo hanno amato sono costretti a riallineare i pezzi e a rimettere in discussione i rapporti che li legano. Ariel, muore nella prima pagina ma proietta la sua ombra su tutto il romanzo. Micol scoprirà che allo spartito scritto dal destino si può cambiare il finale e ciascuno scoprirà qualcosa di sé stesso, del proprio passato e della propria identità».

L’identità è qualcosa a cui tiene molto.

«È il tema della mia vita, il segno della mia poetica. Ed è più facile esplorarla quando se ne hanno di multiple. Vengo da una famiglia di due religioni e avere in casa un padre e una madre che si sono amati senza rinunciare alla propria identità, mi ha fatto credere che è possibile. In questo romanzo faccio centro su qualcosa che conosco: amare avendo aspetti profondi e differenti che si possono e si devono incontrare. Troppo spesso ci si definisce per esclusione e non attraverso il confronto. Costruire mura, in questo caso interiori, dà l’illusione di arginare l’altro ma anche se stessi. In “Vieni tu giorno nella notte” molti muri vengono scavalcati: quello tra Arièl, soldato israeliano e l’amante palestinese Tariq, quello tra Stella e Micòl da sempre in conflitto, quello tra un’amicizia e un amore… Il mio romanzo è un’esplorazione delle molte sfumature dell’amore, l’amore materno, il primo amore, e gli altri: difficili, contrastati, inaspettati e impossibili da arginare».

A un certo punto, nel suo romanzo attraverso la descrizione di che cosa è lo shabbat, c’è una sorta di inno implicito a fermarsi, a riflettere, a staccarsi dalla vita.

«La nonna vorrebbe che i volontari di Zaka, l’associazione che ricompone il corpo di Arièl saltato in aria nel tentativo di fermare il kamikaze, proseguano nel lavoro di sabato. Le viene ricordato che: «shabbat vuol dire cessare, sospendere dunque l’innata pulsione a modificare il mondo di noi umani: niente internet, niente cellulari, niente giornali, niente vendere o comprare, niente creare e distruggere. Un istante di eternità dove il tempo del fare si ferma. Una tregua con il creato durante la quale devi solo guardare, capire e gioire, ma non agire. Una lezione preziosa su come ritrovare il valore del tempo».

Lei che pratica diverse forme di comunicazione dal disegno alla scrittura, in che cosa si differenziano?

«Hugo Pratt ha definito la graphic novel: “letteratura disegnata”. Io sono una cantastorie e scelgo se raccontare una storia con parole e immagini, in forma di graphic novel, o solo con le parole, in forma di romanzo, in base all’istinto. Ma il passaggio alla parola nuda è stato per me importante: quando sottrai uno strumento, in questo caso il disegno, trovi molto altro. Ecco è come con Arièl. Scompare il disegno? Sei costretto a fare i conti con il resto e scopri un mondo nuovo».

A quale dei molti personaggi di questo libro si sente più vicina?

«A tutti. Mi piace indossare i panni dei personaggi anche minori come Ilan, l’artificiere sordo volontario di Zaka, che ha perso parzialmente l’udito in combattimento. È di mezza età, è stato abbandonato dalla moglie e cresce il figlio da solo, è un uomo-donna, un uomo-mamma. Quando racconto che è diventato volontario per una sorta di riparazione del male che ha fatto “convintamente ma controvoglia” è il simbolo delle molte facce di Israele. Troppo spesso si raccontano le due parti in conflitto come eroiche, ma l’eroismo non lascia spazio alle paure. E in quella terra la paura è quotidiana».

Barbara Notaro Dietrich

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