Personaggio
«Il Capitano Woyzeck! Piano con quella lama. Attento che se mi taglia la porto davanti al mio plotone d’esecuzione! Va adèsi cum la lama, stupid d’un Woyzeck facia da siòk sensa sarvel! Sat ma tajj at fag fusiler dal mé plotòn d’esecusiòn. Woyzeck: Sì signor capitano. Il Capitano: Che il Signur att stramaledesa tè e la to famija rugnusa. Cat vegna ‘na sajeta cla ta sbrèga cla facia lé da poar interdèt. T’ho dit mila volti che quand at ma ciamm a me at ghé da dir: SSSSSSignor ILLLLustrissimo CCCCCapitan di CCCCapitàn, pusè bèl che Garibaldi e pusé fort che Napuleòn persag fig e mlòn. Ecco adesso ripeti quel che ho detto….. Haiii! At mè tajè, brut botul cativ e gram. At fag trè dentar in parsòn a pàn e acqua prun mes o du o tri, ma sa dighia? Par tri ann!».
Siamo a Roma, nella sede della compagnia teatrale di Cecchi, nel 1969. Dario Cantarelli è nel bel mezzo di un provino. Vuole fare l’attore. Il regista, il grande Cecchi, l’ha appena chiamato: «Vai su e fammi vedere di che cosa sei capace, se riesci con violento disprezzo verbale a distruggere l’avversario». «Subito mi fu chiaro che dovevo usare un lessico sconosciuto» ricorda adesso Dario Cantarelli, seduto nella bellissima casa di Isola Dovarese, fresco («ma che fresco! Ormai decotto») d’aver compiuto settantotto anni. E autore di questa “performance” che entusiasmò Cecchi e Elsa Morante, alla fine del monologo di squassante forza. Tranne lui, Dario, non capì una parola nessuno dei presenti: infatti era la lingua della nonna paterna, una «risdora» parlante il dialetto della bassa di Reggio Emilia, da dove provenivano i Cantarelli produttori di formaggio Grana.
Fuggire dall’angusta dimensione provinciale era l’imperativo categorico di Dario Cantarelli il quale fin dalla prima infanzia giocava a inscenare e drammatizzare scenograficamente giochi, fiabe, racconti. Poi a 23 anni la fuga a Roma. «Perito chimico avevo un eccellente stipendio da capofabbrica della Pirelli di Cremona», racconta questo fuoriclasse dall’intelligenza rapida a notare ogni particolare dell’interlocutore senza darlo a vedere. E, come tutti i grandi di un’umiltà orgogliosa ma sorvegliata.
«E’ un attore supremo, stupefacente, Dario non si avvicina ai personaggi, ma se ne nutre, capace di suggerne l’anima e l’identità» dice il regista Andrea Baracco, con il quale ha fatto «Guerra e pace» e il «Re Lear» al fianco di Glauco Mauri, due produzioni del teatro Morlacchi di Perugia. Baracco è affascinato anche da un pregio non diffusissimo nell’ambiente: E’ un uomo pieno di autoironia che esercita quotidianamente: il segno distintivo dell’intelligenza veramente alta». Ironico e satirico, osservatore e “vivisezionatore” del prossimo, ecco che il Cantarelli fuggiasco da Cremona arriva all’ultima “chance”. O la va o la spacca. Dario è cresciuto nel mondo borghese attiguo a quello contadino, famiglie matriarcali: e forse per questo i ragazzi hanno una sensibilità acuta, hanno antenne captanti sottigliezze e umori anche minimi. Famiglie matriarcali nel senso che la donna qui è la «risdora» che nove volte su dieci si “innamora’’ del figlio maschio, specie se questi è il primogenito: per il quale la nonna è la “magna mater familias”, onorata e venerata come Dea dei Lari. E che, incavolata come un’ Erinni, deve far pagare il fio di una colpa a qualcheduno. Ma è un’Erinni usa a distruggere il malcapitato con un sarcasmo feroce furente e letale: arma della quale è in dotazione il nipote. Probabile che in quel frangente in Dario sia affiorato un ricordo ancestrale: la nonna che irata stava redarguendo qualcuno meritevole d’una lavata di capo all’istante. «E in lingua madre» ricorda Cantarelli: quella che si succhia “aux anges” dai capezzoli «a dla spusa cla gà al latt»: con implicito biasimo per la «spusa sensa latt, poar i su fiueui». Ed è un linguaggio che da il meglio di sé per il parodiante o l’uomo preda della paura, della superstizione, della disperazione vendicativa. Una lingua dura, dai suoni impuri, stragista di sillabe che schizzano veloci sotto la ghigliottina ossitona.
Cosa disse, che cosa recitò dunque il Dario Cantarelli nel giorno dell’incoronazione ad attore di teatro? «Non ricordo nient’altro che la situazione: ero il Capitano tronfio, volgare, vanaglorioso e crudele che maltratta il povero Woyzeck, commedia di Buchner poi musicata da Alban Berg, con il titolo ‘’Wozzeck’’». Adesso che il regista gli chiede: vai, e fammi vedere di che cosa sei capace quando sei incazzato e maltrattato, Dario scaglia parole antiche che scoppiano e rimbombano oscure, come incomprensibili fonemi che a gragnuole si schiantano sul capitano. «Un ricordo solo: mi ero ispirato a un omarone omaraccio qui di Isola Dovarese: fascista cattivo e pappagorgesco, aggressivo, ignorante e saccente» precisa Cantarelli. I colleghi assistono annichiliti a una sorta di Armageddon in lingua Reggiana, incomprensibile ma terrificante per la carica distruttiva innescata da Dario, il quale quando esausto e svuotato tace e si siede da solo, un po’ discosto dai colleghi della compagnia, interpreta il lungo silenzio susseguente come una bocciatura. «Mi vedevo già di ritorno a Cremona. fallito e sepolto vivo sotto lo sguardo malignazzo di certa gente». Invece ecco scoppiare l’applauso: un battimani lungo, molti «bravo!» e l’encomio di un' Elsa Morante entusiasta. Dario Cantarelli ce l’ha fatta. E adesso arrossito dalla timidezza giunto ai 78, mi chiede un favore: «Non scriva troppo, lasci perdere gli elogi: soprattutto quello della Morante che le hanno raccontato Fausto Malinverno ed Alex, due tra i miei più cari amici. Promesso?». Promesso. Subito una telefonata mi rinfresca la memoria. E’ qunado la Morante sentendo le prove di una commedia, chise chi fosse a interpretare un dato personaggio. «Dario Cantarelli» le risposero. E lei: «Ma che meravigliosa musicalità: sei un Mozart della parola scenica!». Spiacente, Cantarelli: diritto di cronaca. L’attore protesta invano. Ci salutiamo ricordando Fernando Pessoa. la sua famosa poesia «Autopsicografia»: metti attore al posto di poeta oppure insieme (il poeta attore…) e, anche se la metrica va a farsi benedire. Ma il rapporto tra scrittore, lettore e uditore è intatto. Il poeta è un fingitore. Finge così completamente che arriva a fingere che è dolore il dolore che davvero sente. E quanti leggono ciò che scrive, nel dolore letto sentono proprio non i due che egli ha provato, ma solo quello che essi non hanno. E così sui binari in tondogira, illudendo la ragione, questo trenino a molla che si chiama cuore.
Vittorio Testa
© Riproduzione riservata
Contenuto sponsorizzato da BCC Rivarolo Mantovano
Gazzetta di Parma Srl - P.I. 02361510346 - Codice SDI: M5UXCR1
© Gazzetta di Parma - Riproduzione riservata