La storia
C'era una volta Battista, figura quasi mitologica della Valceno bedoniese, dove per decenni hanno resistito le tradizioni legate all’economia del sottobosco. A chi non «mastica» sortite per raccogliere porcini o cavare tartufi, questo nome dirà poco o niente. Eppure, con gli inseparabili Morino e Brilin dal fiuto infallibile, è l’antesignano delle battute al nero (estivo, scorzone o uncinato) della montagna e i suoi bottini deliziavano già parecchi lustri fa gli avventori dei ristoranti liguri, dove arrivavano grazie a chi tornava verso Genova dopo una due giorni in montagna.
Viveva a Masanti di Sopra (piccola frazione nel versante valcenese di Bedonia all’ombra del Monte Pelpi) e non c’è avventore che non ne ricordi la casa e l’irripetibile atmosfera rurale, dove aleggiava persistente il profumo dei tartufi, dei funghi, dei cesti di nocciolo appena intrecciati, delle caciotte e delle castagne con il sottofondo della stufa d’inverno.
Altrettanto celebre è l’inossidabile Armando Berosi, altro signore del tartufo oltre che cacciatore. Vive da sempre a Rio Merlino di Bedonia, nella parte valtarese del territorio, ha deposto il vanghetto alla soglia dei 91 anni, ma conserva ancora la memoria storica dei luoghi dove cavare. Come Battista, infatti, ha cercato e trovato tartufi in ogni angolo buono della montagna tra Valtaro e Valceno e lo ha fatto convintamente quando ancora pochi ci credevano e anzi venderli era difficile. Insomma, alzi la mano chi fino a pochi anni non andava oltre l’equazione «tartufo uguale a Piemonte o Umbria»? Un connubio che per fortuna si è letteralmente sbriciolato grazie ai ristoratori della nostra provincia e ad eventi parmensi attesi come quello di Calestano con la sua «Fiera nazionale del tartufo nero di Fragno» giunta alla trentatreesima edizione, e quello di Bedonia con la decima kermesse della «Fiera del tartufo della Valceno». Ma chi sono, oggi, gli eredi di Battista e di Armando? Al netto di superesperti come Sergio Molinari, Franco Conti e Renzo Squeri che conoscono i boschi della montagna come le loro tasche (anzi, se chiedete a chi organizza i trekking con guide, scoprirete che sono gli stessi che accompagnano i gruppi per vedere e toccare con mano la magia della ricerca), oggi ci sono tanti giovani (e diversamente giovani) che a tartufi hanno iniziato ad andarci grazie soprattutto ai nasi superfini dei loro inseparabili lagotti romagnoli (e non solo: non è il pedigree a fare il naso, bensì il legame speciale che si instaura tra uomo e quattrozampe).
Fenomeni di astuzia che rispondono a nomi dolcissimi come Mia, Tara, Luna, Pepe, Nina, Furia, Blu e Balù. Sono loro i veri protagonisti di questa storia, cui i tartufai di ieri e oggi (Battista e Armando prima e Renzo, Sergio, Franco, Tiziano, Francesco, Matteo, Antonio, Nino e compagnia cantante poi) devono tanto, se non tutto. È quel connubio indissolubile tra uomo e cane grazie al quale oggi, è il caso di dirlo, è stato scritto un entusiasmante libro enogastronomico della nostra montagna, dove il capitolo «tartufi» fa il paio con l’altro grande signore delle terre appenniniche, il fungo porcino.
Monica Rossi
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