C'era una volta Parma
Le stalle moderne assomigliano a catene di montaggio. Lì dentro tutto è meccanizzato e concepito all’insegna della massima funzionalità e della massima igiene. Intanto i vaccari, smessi i consunti abiti, il tradizionale copricapo a zuccotto e lo sgabellino di legno per mungere, indossano camici bianchi azionando pulsanti computerizzati per mungere, abbeverare e dare da mangiare alle loro bestie alle quali certo non mancano cure ed attenzioni come è giusto che sia.
Le vecchie stalle a voltoni con le rondini che andavano a nidificare in quegli angoli tappezzati di ragnatele con l’immagine di Sant’Antonio Abate appesa al muro e vegliata da un baluginante lumino con quel maleodorante fossato che le attraversava, non sono altro che lontani ricordi.
«Al vacär», le sue bestie, le chiamava per nome, le puliva, dava loro da mangiare e da bere, le lavava, le consolava quando partorivano, le mungeva. E loro, le mucche, riconoscevano il loro benefattore. Il vaccaro era il re, il nume tutelare della stalla, colui che aveva la responsabilità del capitale vero dell’azienda agricola. Il suo mondo era la stalla, le sue fans le mucche: la «bruna», la «mora», la «bionda», la «rosina», la «rossa», la «dora» e così via. Si alzava ad orari antelucani, estate ed inverno, tant’è vero che, quando il vaccaro scendeva dal letto per entrare nel suo mondo, in cielo, brillava ancora una stella, un tempo chiamata, nel mondo agricolo, la «stella del bovaro».
Barba incolta, pantaloni logori, un berrettino tondo a righine bianche e blu calcato in testa che ricordava tanto quei copricapi orientali, il vaccaro entrava nella stalla, accendeva le fioche luci che illuminavano quei volti in mattoni tappezzati di ragnatele e nidi di rondoni ed iniziava la sua lunga giornata riassettando le bestie, cambiando il fieno, pulendo laddove gli escrementi avevano intasato «al solcadèl» e, cioè, quel canaletto che scorreva a lato della corsia centrale. Esaurita la toilette delle bestie, iniziava il rito della mungitura che il vaccaro svolgeva sedendosi su uno sgabellino di legno, creato appositamente da lui, a tre piedi oppure monopiede per potersi muovere più agevolmente mentre effettuava l’antichissima liturgia della mungitura infastidendosi non più di tanto a causa di quelle mosche e di quei tafani ai quali, forse, era più abituato lui delle sue bestie.
Terminata la mungitura e sistemato il latte nei «capironi» in attesa che «al casär» passasse a ritirarli, per il vaccaro giungeva il momento della colazione. Ed allora, se la moglie e i figli, alzatisi da poco, si accostavano alla tradizionale tazza di latte, lui poteva permettersi il lusso di affondare il cucchiaio in una robusta scodella di minestrone avanzato la sera precedente, oppure gustarsi polenta fritta e uova, alcune fette di salame, formaggio, frittate e altre «delicatessen» varie che, alla mattina, può trangugiare solo una persona forte che ha alle spalle già molte ore di pesante lavoro. Ma i momenti clou della vita del vaccaro erano, senza alcun dubbio, la festa di San Antonio Abate («Sant’Antónni dal gozèn», 17 gennaio) quando la stalla doveva essere tirata a lucido per ricevere la benedizione del prete, quando una mucca doveva partorire e la «monta» che, a volte, poteva riservargli qualche problema quando doveva trattare con un toro «matto». Quando una vacca «doveva fare», allora la tensione saliva a mille. Il vaccaro, oltre i tempi canonici della gravidanza, aveva un occhio di riguardo nei confronti della «luna giusta» (che regolava la vita dei campi ) e sapeva se quella tal bestia avrebbe partorito di lì a poco oppure nel cuore della notte. Effettuato il parto con la nascita del vitello, la bestia veniva coccolata dal suo nume tutelare e, in quella giornata, per lei, il fieno migliore e qualche carezza non le sarebbero certo mancati. Inoltre, il vaccaro, era anche in grado di prevedere, dal comportamento delle bestie, se la stagione stesse cambiando e se la pioggia fosse in arrivo. Il nervosismo delle mucche, i muggiti irregolari e altre manifestazioni erano, infatti, precisi indicatori meteorologici. Il «mangiare» delle bestie, una volta, forse era più curato di quello dei cristiani che, a dire il vero, non è che straviziassero o si abbandonassero ai piaceri della tavola. Anche perché i piaceri gastronomici non c’erano se non in determinate occasioni: sagra, Natale, Pasqua o eventuali matrimoni. Siccome, una volta, in campagna non si buttava via nulla, proprio nulla, anche la lavatura dei piatti poteva rappresentare un valido condimento energetico per la zuppa degli animali. E, se c’erano giornate di magro dove piatti, pentole e tegami venivano «sgurati» prima dai commensali con il pane e poi dalla «rezdora» con la paglietta ed il sapone, c’erano anche momenti di «grassa» in cui il desco poteva offrire occasioni molto più peccaminose. Ad esempio, quando venivano portati in tavola i tortelli d’erbetta ben conditi con burro e formaggio, oppure quando la «rezdora» cucinava sughi come cacciatore, spezzatino o stufato, nei piatti, si formava una patina che la massaia risciacquava solo con acqua calda che veniva poi versata in un secchio.
L’acqua della lavatura dei piatti veniva poi mescolata con pane secco e altre granaglie di seconda o terza scelta formando un pastone liquido. «In tempo di ristrettezze - scrive Franca Ferrari nel suo libro “Se queste mura potessero parlare” - quando le persone erano longilinee e secche come chiodi, tanto che il vento forte sopra le alture le faceva barcollare quasi a portarle via insieme con il fieno secco, per gli animali la situazione non era migliore. Anche le mucche, infatti, in modo molto evidente, rispecchiavano la condizione economica del padrone. È vero che l’erba nasce spontanea, ma non sempre in gran quantità per cui v’era una gara sul tempo per portare le proprie bestie lungo il canale prima degli altri a farle saziare un po’. I contadini più poveri ricorrevano poi anche ad altre modeste risorse come, appunto, la lavatura dei piatti che era qualcosa di buono e di salato da aggiungere alla magra zuppa delle mucche alla sera prima della mungitura per aumentare un po’ la resa sempre troppo scarsa».
Nei tempi passati il non buttare via nulla era un imperativo fondamentale e guai a coloro che non si attenevano a questa regola. Questo assunto valeva anche per la lavatura dei piatti tant’è che le famiglie senza mucche tenevano in disparte la loro lavatura in un grosso recipiente che veniva messo fuori dalla porta in modo che il vicino, titolare di una stalla, lo passasse a ritirare. I contadini, come recita il saggio adagio popolare, hanno «scarpe grosse e cervello fino» ed allora la lavatura, messa a disposizione dalle famiglie più povere, non era certo ambita e, a volte, il secchio rimaneva dinanzi a casa senza che nessuno lo andasse a prelevare. Si trattava di una lavatura troppo chiara, sciapa e con poca sostanza. Al contrario, i contadini non si facevano scappare la lavatura delle famiglie ricche la cui acqua risultava molto più torbida, con qualche occhio di grasso che galleggiava qua e là, pelli di salame e pezzetti di pane che galleggiavano. Il meglio da poter offrire a bestie affamate. La lavatura più ambita era, comunque, quella del giorno della sagra e delle feste comandate come Natale e Pasqua: addirittura il secchio («soj») era conteso dai contadini che gli facevano la posta.
Alla sera, in occasione delle veglie quando la famiglia contadina si riuniva al tepore delle stalle per «tirare» l’ora di andare a letto, il vaccaro dava un’ultima occhiata alle bestie, si accertava che tutto fosse a posto, richiamava all’ordine, se ce ne fosse stato bisogno, qualcuna chiamandola confidenzialmente per nome come una vecchia amica e poi spegneva quelle fioche lampadine mentre qualche bestia, a sua volta, emetteva un muggito che si perdeva nell’aria della sera. Era la buona notte al vaccaro delle sue mucche che, anche se dormivano in una stalla, non è detto che non avessero un’anima. Il vaccaro, queste cose, a modo suo, le avvertiva.
Lorenzo Sartorio
© Riproduzione riservata
Gazzetta di Parma Srl - P.I. 02361510346 - Codice SDI: M5UXCR1
© Gazzetta di Parma - Riproduzione riservata