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Intervista

Grignaffini, da 35 anni a caccia di cuochi e vignaioli nel solco di Veronelli

Grignaffini, da 35 anni a caccia di cuochi e vignaioli nel solco di Veronelli

di Claudio Rinaldi

22 Novembre 2023, 03:01

Claudio Rinaldi

È stata presentata ieri sera a Milano la Guida Espresso ristoranti, la prima “firmata” da Andrea Grignaffini, da tanti anni critico enogastronomico della «Gazzetta». Lo abbiamo intervistato, per capire dove va la cucina italiana e per ripercorrere la sua lunga carriera “a caccia” di cuochi e vignaioli su e giù per lo Stivale.

Complimenti per il debutto da direttore. Soddisfatto di questa “tua” prima guida?

«L’impegno è stato massimo, questo lo garantisco, per il resto penso che sia un Anno Zero dal quale partire per poi rifinire al meglio il prodotto anche con consigli e critiche costruttive».

La sorpresa più piacevole della Guida 2024.

«Probabilmente i tre cappelli allo chef Federico Rottigni del ristorante Sensorium di Milano, luogo futuristico ed esoterico per una cucina sui generis e tecno emozionale».

Cosa distingue la guida dell’«Espresso» dalle altre?

«È una guida a numero chiuso. Sono 500 ristoranti top valutati con cappelli – da uno a cinque – e voto in ventesimi, da 15 in su. Poi ci sono altri 500 ristoranti segnalati senza voto e senza cappelli perché sono in prossimità dei top. Per cinque ristoranti, tra quelli valutati con cinque cappelli, assegno io personalmente uno speciale cappello d’oro. E poi c’è il cappello di platino, per il miglior ristorante in assoluto, per il “pranzo dell’anno”, assegnato a Massimo Bottura».

Come vorresti caratterizzarla, sotto la tua direzione?

«Critica militante e tecnica, senza nessuna concessione alla geopolitica o ad altro, si valuta solo la cucina o cose afferenti alla stessa, vedi tempistiche di servizio».

Come si batte la concorrenza, sempre più agguerrita, delle community come Tripadvisor o delle recensioni di Google?

«Penso che i prodotti mainstream siano imbattibili a livello numerico, noi puntiamo su un pubblico gourmet o che vuole diventare tale. Quindi diciamo una guida “tecnica”».

Quanti critici sguinzagliate per lo Stivale?

«Siamo una trentina e abbiamo deciso che l’ispettore deve visitare all’incirca la metà dei ristoranti fuori dalla sua regione di appartenenza».

Come si fa a garantire uniformità nei giudizi?

«Si roda la squadra con continui report sulle visite, anche incrociate. In più alla fine entra in gioco la nostra funzione di uniformare i voti, il lavoro senza dubbio più complesso».

Quante visite si fanno, ogni anno, per i ristoranti top?

«Per i top, diciamo i 4 e i 5 cappelli, in molti casi due, tre visite, in alcuni casi anche di più».

Quanto conta l’anonimato del recensore?

«Conta di certo. Bisogna dire, però, che con la società attuale essere proprio anonimi non è facile. Però se si pagano i conti e non si accettano in via generale inviti tutto risulta più semplice. Va anche detto che la cucina contemporanea ha linee di produzione ben definite a priori, quindi difficilmente il cuoco può ritagliare ad personam un piatto per il critico».

Come scegli i critici per la guida? E, a proposito, critico professionista si nasce o si diventa?

«Diciamo che non c’è un albo dei critici ma ci sono, se si riesce a pescare quelle giuste dopo tante verifiche, persone che visitano tantissimi ristoranti anche in giro per il mondo. Occorre quindi fare scouting. Ci vuole palato, che va continuamente affinato; cultura, perché i piatti sono sempre più difficili da decifrare nella cucina d’autore; e tanta esperienza sul campo».

Chi è stato il maestro a cui devi di più?

«Gino Veronelli, maestro di cibo, di vino e di vita (materiale). Poi tutta quella straordinaria generazione di scrittori applicati al giornalismo calcistico, penso ai fenomeni del “Giorno” e del “Guerin Sportivo” capeggiati da un “mostro” come Gianni Brera e dal suo degno erede Gianni Mura, ma vorrei citare Gian Maria Gazzaniga, Giorgio Sbaraini, Vladimiro Caminiti, Giorgio Reineri. Maestri della penna. Poi due persone straordinarie scomparse: il genio Bob Noto, fotografo e palato assoluto, e un avvocato gourmet tra i primi a leggere la cucina contemporanea, Renato Fiorentini».

Come ti sei formato come critico?

«Assaggiando, leggendo, studiando tecniche e profili di chef e vignaioli. Camminando per le vigne – almeno fino un po’ di tempo fa – e pranzando un po’ ovunque».

Qual è lo stato di salute della cucina italiana?

«Siamo in un momento straordinario: in virtù di alcuni fattori determinanti, ha raggiunto livelli di qualità senza precedenti. In primis per l’apporto delle scuole di cucina come Alma, leader nel settore, e dei congressi nel campo della ristorazione; la professionalizzazione dei mestieri di settore ha forgiato nelle ultime decadi cuochi intelligenti e preparati, a volte tanto audaci da mettere in discussione il passato, reinterpretando o perfino migliorando la tradizione, attraverso nuove basi e tecniche di cucina».

Nella sempiterna sfida con la cucina francese, chi vince?

«Diciamo che forse per numeri totali nel fine dining la Francia è un passo più avanti dell’Italia che però negli ultimi vent’anni si sta facendo incalzante. D’altra parte la creatività, lo stile e le materie prime italiane sono invidiate da tutti».

Una caratteristica italiana (di cui andare fieri) è la regionalità. Anzi, il campanile: basta vedere come si litiga ancora, da noi, per il ripieno dell’anolino.

«Certo, e questa è la differenza sostanziale con i cugini transalpini molto più codificati, in Italia la ricchezza è un plus assoluto».

La regione dove mangi meglio?

«Piemonte, Lombardia e Veneto, probabilmente».

Quanti ristoranti hai visitato nella tua carriera?

«Da quando sono entrato nella professione con il mai troppo compianto Gino Veronelli, 35 anni fa, saremo sui 5.000».

Quanti vini hai degustato?

«Sempre da quel momento circa 25.000».

Il piatto che ti ha colpito di più.

«Nella storia italiana forse il “raviolo aperto” di Gualtiero Marchesi perché mi ha aperto il mondo della cucina concettuale».

Quello che non ti stancheresti mai di mangiare.

«Diciamo che fin da bambino mi piaceva cambiare e assaggiare cose nuove senza soluzione di continuità però per la carbonara, per la torta paradiso e, ovviamente, per gli anolini faccio un’eccezione».

Hai un locale del cuore?

«Purtroppo in questo sono un po’ anaffettivo…».

Il miglior cuoco del passato, il più grande di oggi e quello su cui scommetteresti per il futuro.

«Rimanendo in Italia, partiamo da Gualtiero Marchesi: il primo a entrare nel mondo della cucina fatta di concetti, rimandi e associazioni. Massimo Bottura nel presente, per via della spinta creativa e concettuale nella rilettura dell’italianità senza dimenticare che è stato il primo e l’unico a far primeggiare la nostra nazione nel mondo. Per il futuro dico Alberto Gipponi del ristorante Dina di Gussago, protagonista del programma televisivo Saranno Cuochi di Fondazione Barilla, un mix di pensiero, di cultura e di senso del gusto».

Il vino che ti ha emozionato di più. Puoi citarne tre: un bianco, un rosso e una bollicina.

«Nel mondo italiano tra i rossi il Barbacarlo dell’indimenticato Lino Maga, sempre in Oltrepò il bianco O 2007 di Giorgio Mercandelli, come bollicina la costanza del Giulio Ferrari Riserva del Fondatore».

Un giudizio sulla ristorazione di casa nostra.

«Ci sarebbero i presupposti di fare meglio se ci si confrontasse di più. Poi va anche detto che noi parmigiani siamo molto legati alla nostra ottima tradizione, quindi poco amanti delle sperimentazioni, ma questo è un ragionamento che si addice anche al resto della nostra regione».

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