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Natale di una volta: quando il gallo diventava cappone

Natale di una volta: quando il gallo diventava cappone

di Lorenzo Sartorio

11 Dicembre 2023, 03:01

Nelle corti padane e, quindi anche nelle nostre, in quelle giornate estive in cui il sole flagella implacabilmente quei quadretti di terra, quando l’unico riparo i contadini lo potevano ottenere «sott'al pòrtogh», quando in «tn-al sój» ricolmo d’ acqua galleggiavano un paio di angurie che, alla sera, avrebbero rappresentato il rinfrescante dessert per la famiglia contadina, le lungimiranti «rezdóre» pensavano già al Natale... Incredibile ma vero.

E, allora, il primo pensiero per il pranzo natalizio era ovviamente fare un brodo non «da tutt i di» ma che esaltasse ancor più quei capolavori muliebri, «j anolén», dei quali le nostre «rezdóre» sono impareggiabili facitrici. Ovviamente, uno dei protagonisti di un ottimo brodo doveva essere, in compagnia di gallina, manzo e «odór», sua maestà il cappone che, una volta «benedetto» a dovere il brodo, doveva comparire tra le portate canoniche tra le quali quella dei bolliti: manzo, doppia, gallina, lingua, testina, cotechino, zampone ed immancabile «pjén» in compagnia di adeguate salsine casalinghe oppure con la piccante mostarda di Cremona. Si fa presto a dire cappone, però, per averne uno davvero bello, giallo (il detto popolare «l’é giäld cme 'n capón» non è casuale), grosso, tenero e gustoso bisognava attendere alcuni mesi e seguire una liturgia che un tempo, in campagna, rappresentava, addirittura, un vero e proprio rito agreste che si effettuava, infatti, nel periodo estivo ed, esattamente, tra giugno e luglio, quando i galli erano particolarmente forti ed in carne e quindi potevano sopportare una tremenda amputazione. E, a questo punto, oltre la «rezdóra», entravano in scena i «castradór» (uomini o donne), che si recavano nelle corti con i loro attrezzi del mestiere e procedevano a mutilare alcuni galli della loro virilità. Offesa più grave ad un gallo non la si poteva fare, ma l’esigenza e la tradizione volevano che si dovesse procedere in questo modo per avere poi dei buoni capponi in occasione delle feste natalizie, non solo da mettere in tavola, ma anche da vendere al mercato ricavando quei quattro soldi che un tempo facevano particolarmente comodo alla gente dei campi per sbarcare il lunario. E, una volta giunti sui vari mercati, i capponi, venivano trionfalmente esposti nel periodo natalizio, sia all’interno che all’esterno delle varie pollerie come quelle della Ghiaia.

Va ricordato che la castrazione determina l’aumento del grasso soprattutto intramuscolare rendendo la carne così morbida e di sapore così delicato da far ritenere il lesso di cappone una pietanza tra le più raffinate. I «castradór», solitamente persone anziane ed espertissime in questo genere di «interventi chirurgici», si recavano nella corte a bordo di una sgangherata bicicletta al cui manubrio era attaccata una borsa con gli attrezzi del mestiere: un paio di forbici, stracci, una scatoletta con aghi, per lo più ricurvi, e filo bianco.

Adocchiati, con la collaborazione della «rezdóra», i galli da sacrificare, i «castradór», entravano nel pollaio, afferravano la vittima e la portavano fuori. Dopo una breve colluttazione, al povero gallo, che fino ad un attimo prima si pavoneggiava tra il suo harem mostrando la bella cresta rossa, veniva praticato un taglietto. Rapidamente, con una manovra sicura e dettata dall’esperienza, venivano estratti i «fagioli», dopo di che la ferita veniva cucita con ago e filo.

L’ex gallo, un po’ frastornato, si rotolava tra la ghiaia e nell’erba e poi, mestamente, riprendeva la strada del pollaio con la cresta notevolmente abbassata. Il vitto che veniva serbato al neo - cappone era del tutto particolare e diverso.

Innanzitutto doveva ingrassare, stare quieto e rassegnarsi a trascorrere i mesi che lo dividevano dalle feste natalizie affondando i suoi dispiaceri solo nel cibo e dimenticandosi le civetterie delle galline. Infatti la «rezdóra», ai capponi, preparava una mistura più nutriente; addirittura nelle corti dei ricchi, le bestie venivano allevate a pane e latte affinché le loro carni divenissero prelibate per il pranzo natalizio. I «castradór» (ognuno aveva il suo amuleto da monete bucate ad un pezzetto della candela della «Sarjóla»), dopo avere compiuto il loro rito e riposti gli attrezzi del mestiere, venivano pagati per il loro servizio.

Non era escluso, però, che il «boia», invece della paga, scegliesse proprio una delle sue vittime da portare con sé, oppure da lasciare a balia per poi andarla a prelevare nel tempo di Natale. La castratura del gallo doveva essere perfetta, per il fatto che, se eseguita in modo non corretto, poteva causare problemi all’animale.

Quindi i «castratori» dovevano essere davvero abili nella loro arte che, solitamente, avevano appreso dai loro vecchi. Anche perché, mutilare uno dei galli, che rappresentava pur sempre un «capitale» per la «rezdóra» e trasformarlo in prezioso cappone, richiedeva molta attenzione. In caso contrario, se le cose fossero andate male, la «rezdóra» perdeva il proprio capitale, ma anche il «castradór» non sarebbe stato più chiamato a svolgere quella delicata mansione e, per di più, la chiacchiera sulla sua incapacità si sarebbe ben presto diffusa da una cascina all’altra rovinandogli il «giro».

Trascorsi i mesi estivi, il cappone, poteva essere pronto, già dal primo autunno, per essere immolato in occasione delle sagre settembrine. Però, a lui, si preferiva una bella gallina lasciandogli l’onore del desco natalizio. Quando iniziavano i primi freddi e la «galabrùzza» arabescava di bianco campi e orti, la «rezdóra» aumentava le proprie attenzioni nei confronti dei capponi fintanto che, in prossimità del Natale, decideva di far loro la festa, in modo che le carni avessero tempo di frollare. Solitamente i pennuti venivano giustiziati alla mattina di buon’ora, quindi, li si immergeva in una pentola d’acqua bollente posta sul «fogón» sotto il portico.

Dopo di che si procedeva a spennare la vittima, venivano tolte le interiora e la si lavava sotto l’acqua corrente del «sambòt». Una volta asciugato con un «boràs», il cappone grasso e giallo, veniva appeso fuori dalla finestra ed esposto ai rigori invernali.

Naturalmente si sceglievano le finestre dei piani alti in modo che cani, gatti, volpi ed altri predatori anche a «due gambe» , di notte, non facessero scempio della vittima. Una volta opportunamente frollato, arrivava anche per il cappone il giorno fatidico della sua immolazione sulla tavola.

Lorenzo Sartorio

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