VIA FAELLI
Il compagno di stanza che diventa il nemico. L'uomo di cui avere paura. Da cui difendersi prima di essere attaccato. Si sentiva in pericolo, Md Rabbi Hosen. Ma ad essere assediata era forse la sua mente. Affollata di ombre e fantasmi, tanto da spingerlo, il 30 ottobre scorso, ad accanirsi con un coltello e un martello su Rabby Ahmed nell'appartamento di via Faelli, adibito a Centro d'accoglienza (Cas). E il gip ha accolto le richieste di difesa e pm affinché il ragazzo, 23enne, bengalese, venga sottoposto a perizia. L'incarico verrà attribuito oggi allo psichiatra Daniel Benyamin. Un accertamento che sarà assunto in incidente probatorio, con il contraddittorio delle parti, e che quindi entrerà di diritto nel fascicolo processuale.
Quanto emerso finora dalle indagini può far ipotizzare disturbi psichiatrici che possono aver inciso sulla capacità di intendere e volere di Hosen al momento del fatto: da qui la decisione del gip. Che nel provvedimento ha anche sottolineato come una perizia posticipata alla fase del dibattimento allungherebbe i tempi del processo di almeno 60 giorni. Ma lo psichiatra dovrà anche valutare la capacità del ragazzo di partecipare coscientemente al processo e la sua eventuale pericolosità sociale.
Sia il pm Emanuela Podda, titolare delle indagini portate avanti dalla Squadra mobile, che la difesa potranno nominare dei consulenti. Ma l'avvocato Matteo Bolsi, che assiste Hosen, ha già fatto la sua scelta. «Non nomineremo alcun consulente: ci affidiamo al perito scelto dal giudice. La nostra istanza di perizia psichiatrica è stata avanzata con l'intenzione di accertare le condizioni di Hosen e con uno spirito di collaborazione nei confronti della procura», spiega.
Una perizia che disegnerà il futuro del ragazzo arrivato dal Bangladesh e inserito nel centro di via Faelli. Tre gli scenari possibili: nessuna ombra di follia e quindi processo ordinario o abbreviato, nel caso non vengano contestate aggravanti e la difesa scelga il rito alternativo che consentirebbe lo sconto di un terzo; parziale incapacità di intendere e volere, il che comporterebbe una diminuzione della pena; totale infermità e quindi assoluzione, ammesso che sia accertata la sua capacità di partecipare al processo. Ma se la perizia dovesse dichiarare Hosen completamente incapace e socialmente pericoloso, a quel punto per lui si aprirebbero le porte di una Rems, ossia di una residenza per l'esecuzione delle misure di sicurezza, perché il giudice, pur assolvendolo dall'omicidio, ne disporrebbe la sua permanenza nella struttura per un certo numero di anni. E il trasferimento dal carcere di via Burla, in cui è rinchiuso da quasi due mesi e mezzo, potrebbe avvenire anche alla conclusione della perizia, se venisse accertata la sua totale infermità, ancora prima del processo.
«Avevo paura che mi stessero avvelenando», aveva detto agli investigatori poco dopo essere stato fermato. Così aveva spiegato la mattanza della sera prima: il compagno di stanza, 21 anni, originario come lui del Bangladesh, massacrato mentre era steso sul suo letto. Colpito alla gola con un coltello preso dai cassetti della cucina, dove Hosen aveva trovato anche il martello con cui aveva infierito sulla testa di Ahmed. E più volte avrebbe passato la lama da una parte all'altra del collo del ragazzo.
Una violenza brutale. Improvvisa. E completamente immotivata. Perché erano amici. Legati l'uno all'altro in quella nuova vita a migliaia di chilometri da casa. Non c'erano state discussioni quel giorno. Eppure Hosen era già in lotta con le sue ossessioni da settimane. Era stato in Pronto soccorso. E avrebbe dovuto incontrare uno specialista dell'Ausl il 2 novembre. Ma era già andato in pezzi tre giorni prima.
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