Intervista
Gioachino Rossini aveva 23 anni quando compose «Il barbiere di Siviglia». Diego Ceretta, che dirigerà l'opera in scena da venerdì al Regio, ne ha 27. È inevitabile partire da questa riflessione, parlando in camerino col giovane maestro.
Paradossalmente può essere più facile per un “coetaneo” del compositore dirigere quest'opera che racconta, in modo divertente, l'amore tra due giovani, contrastato dagli adulti mossi da biechi interessi? D'altra parte, però, l'esperienza...
«È difficile dare una risposta ora, magari lo scoprirò tra vent'anni. Sicuramente più che l'esperienza del podio, quello che può fare la differenza è una maggior confidenza con il linguaggio di Rossini. Questo è il mio primo Rossini e, dunque, il mio primo “Barbiere”: lo affronto con spirito di voler imparare questo stile».
Rossini campava di auto-imprestiti per cui nel suo linguaggio è facile trovare motivi ricorrenti.
«Quest'opera ne è un esempio. La sinfonia iniziale faceva già parte prima di “Aureliano in Palmira” e poi di “Elisabetta regina d'Inghilterra”. Anche la serenata del Conte d'Almaviva è un auto- imprestito sempre da ”Aureliano in Palmira”. Come pure il “temporale” lo è. La cosa importante è capire da dove arrivano questi auto-imprestiti: arrivano da opere serie e finiscono in un'opera buffa, eppure funzionano. Questo perché Rossini è un genio: di base compone bella musica e basta. Poi la adatta al contesto».
I personaggi di quest'opera sono ben caratterizzati e ci raccontano l'epoca di Rossini. Chi preferisce?
«Forse la mia simpatia è per Don Bartolo che è il gabbato. È sempre sul punto di capire che qualcuno lo sta fregando... ma ci casca. Mi fa tenerezza».
Per la prima volta è sul podio della Filarmonica Toscanini: cosa chiede di tirar fuori da questo Rossini?
«Innanzitutto leggerezza. Poi l'articolazione, chiaramente, ma mi interessa soprattutto tirare fuori alcuni colori, penso “al ponticello”. Rossini chiede espressamente di suonare “al ponticello”, per far uscire un suono metallico nella “Calunnia”, dando l'idea che qualcosa di sinistro si sta avvicinando. Mi interessa anche l'uso del sistro, strumento a percussione. Rossini lo utilizza, per esempio, nel finale primo quando tutti cantano “Mi par d'essere con la testa/ in un'orrida fucina...”. Ecco che il colpo di questo strumento a percussione ricorda l'incudine e la fucina. Rossini ti porta nella testa dei personaggi. Sono piccole sfumature che però fanno molta differenza nel capire che ruolo gioca l'orchestra».
Lei è un direttore giovane, nel curriculum momenti formativi e professionali importanti, a partire dall'esperienza con il maestro Daniele Gatti. Una “prima” al Regio mette sempre “ansia”, a ogni età. La presenza di un grande maestro del teatro come Pier Luigi Pizzi che firma la regia la fa sentire più “protetto”?
«S-nì. Non ho accettato per quello, piuttosto il ragionamento è stato un altro. Avevo già lavorato, su proposta di Alessio Vlad, per un “Macbeth” con la regia di Pier Luigi Pizzi, per la rete lirica delle Marche in cui vi era anche il sovrintendente Luciano Messi. Ecco è stata la squadra che mi ha convinto ad accettare, sapendo che è una proposta fatta anche pensando a me, non un modo di mandarmi al macello. E spero si trovino altri progetti in cui io possa ancora lavorare con Pizzi».
Cosa si «porta a casa» del metodo di lavoro di Pizzi?
«È sorprendente la profondità con cui legge i testi. Questo mi aveva già colpito molto in “Macbeth”. Sì, me lo “porto” a casa, il nostro è un mestiere in cui “si ruba”!».
Lei è un ragazzo aperto e spigliato, come è bello e giusto essere alla sua età. Ma questa carriera richiede sacrifici: cosa le pesa?
«Alla “fatica” dell'esercizio sono abituato, suonando il violino dall'età di 4 anni. Questo lavoro mi toglie un po' di leggerezza per le responsabilità che mi mette sulle spalle, specie da quando sono stato nominato direttore principale dell'Ort, Orchestra della Toscana che è un'orchestra di prim'ordine. Però, alla fine, mi rendo conto che il piacere di fare musica prevale su tutto e mi ripaga di tutto».
Mara Pedrabissi
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