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Il colonnello dei carabinieri Pagliaro racconta ad un anno di distanza

«Il giorno che arrestammo il boss Messina Denaro»

«Il giorno che arrestammo il boss Messina Denaro»

di Luca Pelagatti

16 Gennaio 2024, 03:01

Nell'ufficio del colonnello Andrea Pagliaro, comandante provinciale del carabinieri di Parma, ci sono due fotografie. La prima mostra un gruppo di uomini in un piazzale: la luce è quella livida dell'alba d'inverno e quelle figure, tese e concentrate, stanno ascoltando qualcuno che impartisce ordini. Nella seconda c'è un manipolo di carabinieri in uniforme che sorridono: intorno ci sono gli stucchi del Quirinale, in primo piano il presidente Mattarella. In mezzo, tra quei due scatti, ci sono ore concitate, adrenalina e notti insonni, la consapevolezza che ci sono sfide che si giocano ma non si possono perdere. C'è una vittoria dello Stato. C'è l'arresto di Matteo Messina Denaro.

«E non si può nascondere che c'è stata una forte soddisfazione per noi che c'eravamo e che abbiamo contribuito a quel risultato», racconta il colonnello Pagliaro ripercorrendo i momenti di quel 16 gennaio di un anno fa. Lui, all'epoca comandante del Reparto operativo del comando provinciale di Trapani, era tra quegli uomini in piedi all'alba, lui c'era quel giorno al Quirinale. Era li anche quando l'uomo più ricercato d'Italia, il boss dei boss, ha pronunciato la famosa frase: «Lei lo sa chi sono io. Sono Matteo Messina Denaro».

Dodici mesi sono passati, il capo della mafia, nel frattempo, è morto ma le emozioni di quel giorno non si possono cancellare. E il colonnello Pagliaro le rivive. «Quel successo, frutto di un lavoro di squadra, in primis del Ros, è il risultato dell'impegno di chi ha voluto rendere omaggio alle vittime della mafia. Non a caso quell'operazione è stata battezzata “Tramonto”, proprio come il titolo della poesia scritta da Nadia Nencioni, uccisa dal tritolo della mafia in via dei Georgofili quando aveva solo 9 anni».

Il simbolo struggente di una guerra durata anni, e purtroppo non ancora finita, a cui i militari dell'Arma si sono dedicati con tutte le forze. «Eppure, paradossalmente dopo l'arresto, non c'è stato tempo di festeggiare, di tirare il fiato. Anzi, quelli successivi sono stati giorni ancora più intensi fatti di perquisizioni e arresti». Già, perché non si resta liberi per trent'anni se, intorno, non c'è una rete solidissima di complicità e paura. Di omertà.

«Per abbattere questo muro di gomma l'Arma ha messo in campo i suoi migliori investigatori come i militari del Ros, ha applicato un metodo che ha permesso di sequestrare centinaia di milioni di euro di beni, di arrestare una legione di persone che proteggevano Messina Denaro, di fare terra bruciata intorno al latitante».

E non a caso, proprio di queste ore, sono le condanne per i «vivandieri», le ombre al servizio del boss nascosto dietro una nebbia di connivenze, che i carabinieri hanno identificato in quei mesi di indagini. Seguendo una pista evanescente come un sogno che, in alcuni casi, portava anche dalle nostre parti: «Uno dei soprannomi che usava Messina Denaro nei suoi pizzini era il “parmigiano”». E lo usava in riferimento ad uno dei suoi complici che si occupavano di finanziare le sue attività.

«Occorre comprendere che per arrivare ai latitanti bisogna monitorare i circuiti criminali e familiari che li proteggono – prosegue Pagliaro che come tanti suoi colleghi ha contribuito a incrociare dati e informazioni, a scavare tra migliaia di nomi e identità. Fino a quando è spuntata la pista giusta. «Abbiamo scoperto che Messina Denaro era malato. A quel punto abbiamo valutato un numero immenso di identità, cercato di capire che nome usasse, provato a capire dove si stesse curando». Alla fine è spuntato un nome: Andrea Bonafede. «Era quello di un parente di un favoreggiatore del boss e soprattutto abbiamo scoperto che il giorno in cui avrebbe dovuto trovarsi sotto ai ferri per un intervento era invece altrove, a Campobello di Mazara. E il cerchio ha iniziato a stringersi». Ma fino all'ultimo non c'era certezza.

Come non c'è mai quando si parla di mafia. «Questo perché la criminalità organizzata va affrontata anche, forse soprattutto, come un problema culturale. La si potrà sconfiggere, per citare una frase divenuta ormai celebre, solo con un esercito di maestre elementari». Ovvero coloro che danno un'impronta alla mente e al cuore degli uomini di domani. Quelli che devono comprendere che esiste un solo interlocutore: lo Stato. Non la mafia.

«Ed è un percorso ancora lungo, difficile. Con Messina Denaro abbiamo arrestato l'ultimo degli stragisti. Ma, lo sappiamo, la mafia è ancora viva e continua ad infiltrarsi nelle nostre città, a contaminare il mondo del lavoro, degli appalti. A gestire il mercato della droga».

Ecco perché Pagliaro, da quattro mesi a Parma, continua il suo minuzioso lavoro di osservazione, la sua battaglia. «Qui ci sono anticorpi forti, la gente è pronta a denunciare. Ma occorre portare avanti l'impegno di tutte le forze dell'ordine applicando per tempo le misure interdittive, per impedire che la criminalità si infiltri nel tessuto economico sano. E lo contagi».

Ma poi il racconto, per forza di cose, torna a quello che è accaduto un anno fa, in quella stradina a due passi dalla clinica La Maddalena di Palermo. «Non è vero che il boss si è fatto prendere: noi abbiamo scoperto il suo punto debole e lo abbiamo sfruttato. Lo abbiamo fatto grazie alla nostra capacità di non cedere mai. Dopo ogni passo falso abbiamo sempre ricominciato da capo. E c'è chi, come il maresciallo del Ros Filippo Salvi, per questa sfida ha perso la vita». Una capacità di arrivare al sacrificio estremo che, per Pagliaro, è iscritta nel dna di chi indossa gli alamari e la divisa. Di chi ha fatto un giuramento.

«Forse anche per questo il giorno in cui il presidente Mattarella ci ha ricevuto e ci ha espresso la riconoscenza della Repubblica rappresenta un giorno speciale per me, per noi».

Noi, ovvero tutte le componenti dell'Arma che hanno portato al livello più alto un sistema che porta il nome di un grande carabiniere: «Non abbiamo lavorato singolarmente ma tutti insieme, come una squadra, secondo il metodo Dalla Chiesa, che porta alla piena valorizzazione delle capacità informative e investigative», conclude Pagliaro riflettendo che, in fondo, il segreto è poi tutto qui: «E' qualcosa che sta dentro la storia dei carabinieri, da sempre vicini alla gente, tra la gente».

Le stesse persone comuni che quel 16 gennaio del 2023, per le strade di Palermo, spontaneamente, hanno applaudito i militari. Sul muro ci sono solo foto e non si può sentire: ma chi c'era, e ha ascoltato quel «grazie» pronunciato col cuore, non lo potrà mai dimenticare.

Luca Pelagatti

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