L'analisi
La soluzione di tutti i problemi è diventato un problema senza soluzione. Il Var (maschile, come confermato dalla Accademia della Crusca, in quanto acronimo di Video Assistant Referee) è stato introdotto in Italia nella stagione 2017-2018 (primo caso: rigore al Cagliari, tirato da Farias e parato da Buffon, in Juve-Cagliari 3-0, sabato 19 agosto 2017) e già dimostra tutto il peso degli anni che non ha, una specie di «ingravescente aetate», per dirla con Papa Benedetto XV. Sono differenti i motivi per cui il Var non funziona come era stato auspicato. Intanto bisognerebbe considerare, in via preliminare, che, come ha ben spiegato sul «Corriere della Sera» Paolo Casarin (fra i più grandi arbitri italiani e designatore rivoluzionario dal 1990 al 1997, prima di diventare dirigente del Parma), «il Var è stato adottato per disperazione. L’arbitro in uno stadio di serie A, con tante difficoltà di gestione tecnica, era l’unico a decidere da solo, e soprattutto subito. Nelle panchine delle due squadre, in tribuna stampa e persino in tribuna d’onore abbondava la tecnologia. Di conseguenza i calciatori venivano informati degli errori degli arbitri, con il risultato di caricarli di disistima nei confronti dei fischietti. Da qui al Var il passo è stato breve e accettato dagli arbitri, come una specie di pronto soccorso per ridurre gli errori». All’inizio il protocollo varista redatto dalla Fifa parlava di intervento nel caso di «chiaro ed evidente errore o di grave episodio non visto» (tipo la testata di Zidane a Materazzi in epoca pre-varista, 9 luglio 2006). Con il tempo, il Var è diventato una moviola a bordo campo, con la conseguenza che ormai si arbitra (o si dovrebbe arbitrare) in due: l’arbitro in campo e quello davanti al video, a Lissone. E non sempre i due hanno le stesse idee. C’è l’arbitro di campo che tiene in grande considerazione il collega che sta davanti al video, perché lo considera davvero un salvavita e chi invece cerca di fare di testa propria, nel segno di un complesso di superiorità che qualche volta produce errori anche grossolani e tensioni interne.
È una questione di sensibilità, di personalità, di eventuale sudditanza psicologica che esiste ancora. E di preparazione. Può non essere elegante scriverlo, ma una volta i fischietti italiani erano davvero i migliori del mondo; da anni, invece, non è più così. Non è il caso di scomodare Lo Bello o Michelotti (chissà che cosa avrebbero fatto, nel caso in cui fossero stati costretti ad attendere tre o quattro minuti per sapere se un gol era regolare), Casarin o Agnolin e nemmeno Rosetti o Collina, tutti arbitri di eccezionale bravura, pur con metro di giudizio molto diverso, ma è il livello medio a essere sprofondato, per mancanza di «allenatori» all’altezza (vedi il caso del permaloso Gianluca Rocchi).
Il vero errore, però, è quello di considerare le immagini del Var come una sorta di «scienza applicata al calcio», capace di risolvere gli interrogativi proposti da «leggi» in continuo cambiamento: fino al 1990, le 17 regole erano come i comandamenti di Mosé, mentre negli ultimi 33 anni si è continuato a modificare il regolamento, con le conseguenze che a rimanere spiazzati sono stati per primi gli arbitri. Un esempio? Il fallo di mano, dopo che è stato abolito il concetto cardine di volontarietà; a parità di episodio, si può decidere in due modi contrapposti: rigore perché la distanza è ravvicinata, ma il braccio è largo; non rigore perché il braccio è largo, ma la distanza è ravvicinata. Le perplessità intorno Var sono legate al fatto di voler osservare un episodio al rallentatore. L’immagine rallentata non fa che ingannare l’arbitro (davanti alla tv e in campo), perché come sottolinea l’ingegner Ivo Gurioli, studioso di scienza applicata al calcio, «l’immagine rallentata dà risalto alla geometria del calcio e non alla fisica, cioè cancella l’intensità del contatto. Il calcio non è il calcetto o il basket, dove ogni contatto è un fallo. L’immagine rallentata non chiarisce quanto sia forte un colpo dato e ricevuto, perché si tratta di una ricostruzione virtuale in forma bidimensionale e non tridimensionale come è la realtà». Da qui nascono i cosiddetti «rigorini» o «rigori televisivi», perché se alla realtà virtuale si aggiunge l’immagine rallentata, allora si finisce per snaturare il calcio.
Il problema è ben più complesso. Il Var ha pensionato gli assistenti (ex guardalinee), ma se si decide che alla fine comanda l’arbitro che sta davanti al video, allora diventa indispensabile cambiare in modo radicale il regolamento, perché non si possono adattare alla tecnologia regole pensate, studiate e poi scritte per un calcio senza il supporto tecnologico. In attesa di tempi migliori, se le immagini rallentate offrono una situazione diversa rispetto a quella reale, servirebbe una perfetta sintonia fra i due arbitri, ma visti i soggetti chiamati in causa e il fatto che non sono mai state sperimentate le coppie fisse (stesso arbitro e stesso varista), per ora si tratta una semplice utopia. Come le certezze sul fuorigioco semi-automatico. Ma questa è un’altra storia.
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