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Colpi di Testa

Giovanni Allevi stasera a Parma: «L'amore del mondo sulle mie dita»

Giovanni Allevi stasera a Parma: «L'amore del mondo sulle mie dita»

di Vittorio Testa

12 Febbraio 2024, 03:01

«Dal nome ‘mieloma’ scaturisce una melodia romantica di sorprendente bellezza. Durante il ricovero ho iniziato a comporre un brano per violoncello e orchestra ispirato a questa melodia: sogno di poterla dirigere in un teatro per festeggiare la guarigione». In questa struggente sfida di un uomo all’universo mondo ci sono l’ardore, la forza di volontà e la certezza di avere un Daimon sicura guida dell’esistenza.

È forse una sfida temeraria, questa di Giovanni Allevi, dottore in Filosofia nonché maestro in Pianoforte e Composizione?

Dopo la commossa e commovente apoteosi televisiva del Festival Sanremo, dopo due anni di assenza dal palcoscenico per gravissimi motivi di salute, stasera sarà proprio Parma a ospitare il primo vero concerto del musicista di Ascoli Piceno: tappa iniziale di un Giro che lo porterà in altri sette teatri.

C’è una certa apprensione affettuosa intorno a lui.

Il padre, Nazzareno Allevi, clarinettista, è accoratamente preoccupato. «Giovanni, figlio mio», dice, «siamo stati a un passo dalla tragedia: per un intero anno sei stato tra la vita e la morte. Ma è il caso che tu ora ricominci con i concerti? A Sanremo sono stati venti minuti, e con l’aiuto di un busto… I concerti sono ben altra cosa...». Ma il professore padre sa già come finirà: «Quando Giovanni prende una decisione nessuno è più in grado di dissuaderlo. Speriamo in Dio...».

Il «mieloma multiplo», questo il nome dal suono quasi innocuo dietro il quale si nasconde la malattia tumorale ossea, ha reso assai vulnerabile il fisico del compositore. Ma per contrappunto ha affinata e potenziata la capacità di trasmutare la dura e per certi versi terribile realtà in una specie di fiaba esistenziale, popolata di draghi minacciosi, di incubi e di paure sublimate dalla capacità illusionistica, di forza quasi infantile, di questo “puer aeternus”, geniale compositore di una musica fatta di dolcezze carezzevoli, di brevi turbamenti, di ansie, gioie e smarrimenti di timbro adolescenziale.

Allevi «Capatosta» ha una storia lunga alle spalle, una bella storia di avversità e di deserti attraversati con la pazienza di un Giobbe colto e geniale. Giorni amari ma di un’amarezza solitaria quasi gioiosamente radiosa, percorsa com’era da una speranza che volgeva in certezza nutrita di un percorso di studi con i fiocchi: liceo classico, la laurea in Filosofia a Macerata, questo Olimpo racchiuso dalle mura, turrito culmine dai tramonti fatali, paradiso di rondoni in vertiginosi e strillanti cerchi, luogo pronubo della meditazione stoica. Poi il diploma in Pianoforte al Conservatorio di Perugia, e infine il diploma in composizione e direzione d’orchestra al Conservatorio Giuseppe Verdi di Milano. Milano: la città dove è maturato il suo destino. «Penso a quei giorni rinchiuso nel monolocale sui Navigli», ricordava Allevi nel corso di due puntate di «Loggione» che gli avevo dedicato, su Canale 5 nel 2011. Milano «ovvero anni e anni di porte sbattute in faccia. Per arrivare a fine mese facevo il cameriere, ma spesso non avevo manco i soldi per la pizza. Scrivevo notte e giorno la musica che veniva a trovarmi: ma superflua perché inaudita».

Un disappunto feroce, questo dell’inaccettazione, che faceva il paio con l’ostilità ostracizzante esercitata dal vertice del Conservatorio milanese, «la roccaforte della musica alta, del sinfonismo intoccabile. Spietata nemica della novità che io sentivo crescere dentro di me. Un bisogno di aprirsi al nuovo, alle partiture scritte dai nuovi musicisti giovani. Certo non all’altezza di un Beethoven o di Chopin, il mio preferito. Ma che aveva un senso preciso e una sua dignità», ricorda Giovanni Allevi fatto segno di critiche sanguinose e insulti dai paludati difensori passatisti.

«Un giorno presi la decisione di uscire allo scoperto». Siamo nel 2001, quando Giovanni Capatosta si fa assumere nella squadra di camerieri al Biffi, il lussuoso ristorante in Galleria, dove si celebra il «dopoScala» del 7 Dicembre. Con il cuore in tilt, Allevi si avvicina al Maestro: «Mi chiamo Allevi, faccio il musicista e per campare il cameriere. Mi sono intrufolato qui per conoscerla di persona e regalarle il mio primo disco: si intitola “Tredici dita”». Muti si alza, lo abbraccia e lo presenta a tutti i commensali scaligeri. Ma poi? «Poi il Maestro se ne va dimenticando il cd sulla tavola», dice Allevi virando verso la positività di un’autostima portentosa. «Ma è comprensibile! Del resto io ero già più che felice e appagato per aver coronato il mio sogno!».

Ma adesso Peter Pan è di colpo invecchiato: è come se lo stop di due anni, imposto dal male fisico – un male tremendo e inesorabile – avesse sancito la certezza della caducità anche del ‘cantastorie’, idoleggiato da milioni di giovani, e mai come ora diventato un uomo normale, sottoposto, come tutti, alle angherie dell’anagrafe e della finitezza. Ai medici che gli dicevano di lasciar perdere il lungo giro d’Italia di concerti o, quanto meno, di alleggerirlo, Giovanni Allevi rispose che non se ne parlava proprio: «Ho strappato una manciata d’anni al destino: e adesso li voglio vivere soprattutto per abbracciare il mondo, l’universo, i miei sostenitori, ad uno ad uno, sentirne l’anima, l’intelligenza accesa in noi dalla scintilla divina che fa di ogni uomo un “unicum”. Sarei io a dover chiedere a ognuno di loro l’autografo e la dedica: perché la mia musica sgorga sorgiva dall’infinito mondo eterno delle idee preesistenti e trova in me il semplice medium: sono le note immortali che vengono a cercare me. Io sto fermo e le trascrivo sul pentagramma».

La cosa più incredibile è che tra due mesi questo “puer aeternus” della musica classica contemporanea, questo filiforme sempre sorridente Peter Pan dell’armonia compie 55 anni. Ha avuto successo: un successo persino esagerato. Apprezzamenti da Gorbaciov e dal Papa. Una medaglia d’oro dall’Associazione mondiale dei Mozartiani. E addirittura i tenici della Nasa gli hanno dedicato un’asteroide. Niente male per questo eterno ragazzo che, come il riccio, seminascosto dentro l’intricata massa tricoricciuta, tiene concerti dal cerimoniale basato su gesti ieratici e solenni: dall’Introibo con le mani rivolte al cielo, sussurrando «Tutto l’amore del mondo sulle mia dita», al finale giubilante in inchini al pubblico che urla la sua felicità. E al temine di ogni brano, Giovanni chiude l’ultimo accordo con una specie di solfeggio mistico: inchino al pianoforte, le braccia alzate e la mano destra ondeggiante come a condurre lo spegnimento della musica. Delicato come gli amati «haiku», forma di poesia giapponese basata su soli tre versi, di sette –cinque - sette sillabe. Gliene dedichiamo uno noi: «Al suono di Giovanni/Sboccia la rosa/Fiore dell’Allevità».

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