×
×
☰ MENU

Tutta Parma

Storie di «famìj da fagòt»: quei bimbi “ceduti” per il lavoro nei campi

Storie di «famìj da fagòt»: quei bimbi “ceduti” per il lavoro nei campi

18 Marzo 2024, 03:01

Il culto popolare ha riservato alla Madonna un posto d’onore affiancando il suo nome a tante località, monti, laghi, sagre, eventi stagionali, come ad esempio, la «Madonna della Neve», quasi ad implorare una protezione celeste suoi luoghi dedicati alla Vergine. Pochi sapranno che, proprio nel parmense, esisteva la solennità della «Madonna di famìj da fagòt» che veniva celebrata il 25 marzo e, cioè all’inizio della primavera, come se i genitori di questi piccoli «schiavi dei campi», per l’appunto i «famìj da fagòt», volessero affidare i loro pulcini alla Madre di Dio.

Una volta, oltre la disoccupazione, lo sfruttamento del lavoro minorile e l'analfabetismo c'era pure la miseria che colpiva, non solo la città, ma anche il primo contado, la campagna e la montagna dove le famiglie erano numerose e non sempre, in tavola, c'erano zuppa o minestra per tutti. E, allora, le famiglie dovevano escogitare qualcosa per alleggerirsi un pochino sistemando dove potevano i bambini.

Alcuni, i più mingherlini, venivano reclutati dagli spazzacamini poiché, data la loro esile corporatura, potevano salire e scendere agevolmente dalle cappe, altri, venivano indirizzati in seminario, mentre i più robusti erano utilizzati nei campi e nelle stalle alle dipendenze di qualche ricco possidente che li assumeva per i lavori più umili. Anticamente, quando il lavoro dei campi richiedeva molta mano d’opera e la famiglia contadina non era in grado di far fronte a tutte quelle ore di lavoro, il «rezdór», andava alla ricerca di un aiutante chiamato «famìj da fagòt». Il garzone era un giovane di 7- 8 anni il quale, a causa della miseria che avvolgeva la propria famiglia, era costretto ad abbandonare casa ed affetti per prestare la sua opera in una cascina fino ad autunno inoltrato.

La «stagione dei famìj» iniziava in primavera, esattamente il 25 marzo (Annunciazione della Madonna), ricorrenza nel corso della quale si svolgeva in alcuni paesoni della pedemontana una fiera che coronava questo tristissimo mercato dove poveri giovani (futuri «famìj da fagot») venivano reclutati per mai contate ore di lavoro. In cambio di pesanti fatiche la paga era assai leggera: vitto (solitamente zuppa o polenta tutti santi giorni), un giaciglio di paglia nel fienile o nella stalla su cui dormire e, al termine della stagione, un sacco di farina ed un paio di scarpe. «Famìj da fagòt», dunque, era così chiamato quell’umile, giovane e povero «servo dei campi» che si portava appresso un misero fagotto contenente pochi e logori indumenti, una micca di pane ed un pezzo di formaggio avvolti in un fazzolettone a quadrettoni che la mamma consegnava al figlio nel momento in cui abbandonava il focolare domestico.

«A Langhirano- come precisa Enrico Dall'Olio in «Tradizioni Parmigiane», Grafiche Step editore - oltre la piazza in cui si svolgeva il triste mercato dei “famìj” esisteva la “Madonna di Famìj” che la leggenda voleva proteggesse questi piccoli servitori della terra». Il fenomeno affonda le sue radici ben lontano nel tempo e si trascinò fino alle soglie degli anni Trenta. Si trattava di un avvio assai precoce al mondo del lavoro agricolo per fare fronte alle necessità familiari. Ad alimentare questa sorta di reclutamento - mercato dove convenivano numerosi agricoltori ad ingaggiare giovinetti, erano la collina e la montagna, ossia, laddove la miseria era più nera che altrove e le famiglie più numerose. Indubbiamente era la necessità a spingere i genitori ad offrire sul mercato i loro figlioli ancora in tenera età i quali erano destinati ad aiutare chi li assumeva per fare fronte agli impegni relativi alla conduzione del fondo ed al governo del «capitale», ossia, del bestiame. Mentre le bambine, utilissime nei lavori di casa, una volta impratichitesi, partivano anch'esse per fare le servette in città.

Sui «famìj da fagòt» sono nate storielle e leggende che, soprattutto nella Val d’Enza e nella Valle della Termina, sono state tramandate di padre in figlio per testimoniare le massime attenzioni che la gente dei campi ha sempre riservato a questo triste fenomeno di bracciantato agricolo. Una simpatica e molto significativa novella della Val Termina - riportata dall’indimenticato Gino Zannani titolare, anni fa, di una botteguccia di riparazioni bici in borgo Giacomo Tommasini - narra di un coraggioso «famìj da fagot» maltrattato da un violento e zotico «rezdór». Una gelida sera d’inverno, mentre stava nevicando, il rozzo padrone rivolto al giovane disse: «tutt il scarfùlli äd neva j' én tutt famìj da fagot chì sércon padrón». Passò quel terribile inverno e giunse la primavera che ammantò di fiori campi e giardini. Un giorno, osservando un bel prato trapuntato di «pisacan», gialli come la polenta, il «famìj», rammentandosi dell'infelice frase pronunciata dal padrone alcuni mesi prima, ribattè: «sgnór rezdór, a j' à vèddol tùtti ch' il margarìtti gjäldi in-t-al camp? J' én tant padrón chì sércon di famìj da fagòt». Il giovane rimise insieme i suoi quattro straccetti e si incamminò verso casa sua con la certezza che la campagna, come una mamma, non avrebbe mai lasciato morire di fame nessun suo figlio.

Un altro episodio legato ai «famìj da fagot» che correva sulla bocca degli anziani riguardava un certo «Morètt ädla Gigión'na», un vispo ragazzino di Lesignano che, come tanti suoi coetanei, dovette rassegnarsi al destino di «famìj». Nella piazza di Langhirano, dove si svolgeva il «mercato dei famìj», il padre del ragazzino trovò un'occupazione al figlio conducendolo egli stesso a destinazione presso la famiglia di Casatico che lo aveva richiesto. Il genitore fu soddisfatto sia del compenso che del lavoro e dell' ospitalità offerti al figlio che, poverino, era costretto a dormire nella greppia della stalla con una pagliata per materasso. Al giovanissimo «famìj» quel giaciglio in mezzo alle mucche non era certo gradito, quindi, iniziò a macchinare nella sua testolina la maniera per uscire dalla trappola. Il padre, prima di fare ritorno a casa, abbracciò il suo «Morètt» e si incamminò prima che facesse buio. Avendo avuto la consapevolezza di avere fatto un buon affare, l'uomo, si concesse un bicchiere di vino all'osteria Gardoni di Torrechiara non pensando mai più che il figlio, infilata la porta della stalla e, trovando l'orientamento come un piccione viaggiatore, facesse ritorno a casa anticipando il padre e buttandosi tra le braccia della mamma la quale, come tutte le madri, intuì la situazione prevedendo le reazioni del marito non appena fosse rientrato. Nascose il figlio dietro una tenda che fungeva da parete divisoria dell'unica stanza in cui vivevano. Come avvertì i passi del marito, la donna, si affacciò alla porta dicendo: «e alora cól ragas as' catol bén ?». Risposta: «al sta benone e po' al gh'é sta vlontéra». La donna replicò «e s'al doviss gnir a ca' ?». «Mo an g'hé dùbbi» - ribattè il marito - a gh' sta trop bén là». «Alóra- disse la donna- vén chi a vèddor e guärda». Tirò la tenda ed il ragazzino si affacciò timidamente dal suo nascondiglio sotto gli occhi stralunati del padre rimasto senza parole. «As vèdda - concluse la donna - che in cóll sit là al n'é gh' stäva po' tant bén s' lé artornè a ca' pù zvèlt äd 'na lévra».

Novelle semplici, umili, fatte in casa come la «fojäda» che narrano l’epopea dei «famìj da fagot»: giovanetti e, in molti casi anche bambini, i quali si cibavano di zuppa e polenta e, per dormire, disponevano della «greppia con un brancón äd fén. Un po’ famìj e un po’ Gesù Bambén». («Oc’ Luster» di Renzo Pezzani edizione Battei).

© Riproduzione riservata

CRONACA DI PARMA

GUSTO

GOSSIP

ANIMALI