C'era una volta
Stiamo parlando di un'altra Parma, di una città di tanti fa: più piccola, meno affollata, meno trafficata. Una città dove i pedoni potevano attraversare la strada senza il pericolo di essere travolti da auto, scooter e monopattini. Una città più piccola, indubbiamente più raffinata, magari più provinciale; ma non è detto, in quanto le sue connotazioni ducali erano forse più accentuate prima che non ora.
Insomma, stiamo parlando di una città molto diversa dall’attuale. E, allora, Parma, negli anni, è cambiata in meglio o in peggio? Il cronista, una risposta ben precisa da fornire a questa domanda ce l’ha, ma spetterà al lettore dare un giudizio che, per chi scrive, è pur sempre sacro. Anni fa era completamente diverso «di qua dall’acqua», ciò valeva anche per «dedlà da l’acua», la culla della parmigianità più vera con quei borghi che trasudavano di dignitosa povertà ed altrettanta dignità. Borghi che ne videro di tutti i colori dalle barricate, alle leggendarie imprese di carità di Padre Lino.
Borghi nei quali si affacciavano tantissime osterie e dove i «ragas» si divertivano con le fionde fatte con i rametti biforcuti delle piante e con i monopattini, che non erano come quelli velocissimi di adesso, ma «j' éron äd lèggn, j' andävon pù pjan, e po' j' éron fat in ca' cme la fojäda e i sc'iamävon carètt». Nel mondo piccolo dell’Oltretorrente, e forse pochi lo ricordano, operava un unicum della cucina parmigiana: il ristorante-albergo Leonida, un tocco di classe e di raffinatezza incastonato nel popolare e chiassoso «dedlà da l'acua». Il locale era ubicato in piazzale Inzani, il piazzale oltretorrentino che fu ricavato dalla demolizione di Borgo Avvertisi ed era la continuazione di Borgo Fiore (delibera comunale del 20 marzo 1902). Entrambi i borghi presero il nome dai luppoli (in dialetto «avartìs») che si coltivavano in quegli orti. Il ristorante, che sorgeva quasi all’angolo con strada D’Azeglio, vanta una storia antica ed affascinante che parte agli inizi dell ‘800 quando, dietro al banco, stappava bottiglie un certo «Stopén», così soprannominato, perché indossava una parrucca di stoppa con tanto di codino.
Successivamente, la trattoria, venne chiamata Leonida, nome maschile, ma, in realtà, fu la storpiatura del nome della proprietaria che si chiamava Leonilde. La tradizione del locale, che negli anni fu oggetto di notevoli migliorie sia all’interno che all’esterno, fu quella di essere frequentato da moltissimi studenti di Medicina in quanto vicino, sia all’Ospedale Vecchio ubicato in strada D’Azeglio, che, in seguito, a quello «nuovo» che sorse in Via Gramsci. Il periodo del suo massimo splendore, il ristorante, lo ebbe quando la gestione passò nelle mani della nipote di Leonilde: Paolina Quintavalla e del figlio Pippo Rossi, anima del locale fino al marzo 1963 quando decise di chiudere e vendere anche l’immobile. Un ristorante, «Leonida», che poi divenne «Pippo Leonida», davvero famoso (segnalato sulla guida Michelin), frequentato da personaggi illustri fra i quali tanti medici e cattedratici.
All’interno, un grande spazio adibito ad elegante sala da pranzo con, al centro, una colonna quadrangolare. La cucina era situata in fondo mentre, a lato, il corridoio e, nella parte esterna, un cortile con l’immancabile pergolato che ospitava le cene estive. Ai piani superiori dieci stanze da letto. Da notare che l’albergo-ristorante di Piazzale Inzani fu uno dei primi, nella nostra città, a dotarsi di un apparecchio tv che, a quai tempi (parliamo della fine degli anni '50), significava una novità. A parte le camere da letto sempre tirate a lucido, la cucina, ogni giorno, sfornava piatti d’eccezione. Intanto, i salumi misti ed un profumato culatello davano il benvenuto al cliente che poi poteva scegliere fra un ricco menù che prevedeva degli unicum come la cotoletta alla milanese al pomodoro, anolini che galleggiavano in «bròd äd tèrsa», al sabato la «buzéca» e l’immancabile, inarrivabile ed unico stracotto che faceva andare in visibilio tutti quei «camici bianchi» che da Leonida, al fonendoscopio, preferivano coltello e forchetta per gustare «al stracòt», il tutto accompagnato da pregiati vini piemontesi che Pippo acquistava dall’amico Michele Braida-Bruno, titolare dell’omonima e nota ditta di rappresentanza vini e liquori della nostra città. Un aneddoto che la dice lunga sulla squisitezza dello stracotto della Paolina (celebrato e premiato più volte da istituzioni e gourmets) narra di un ex studente di Medicina che divenne un ottimo medico di un paese lombardo il quale, avendo smarrito la ricetta dello stracotto, scrisse per averne una copia mettendo sulla busta della lettera il seguente indirizzo: «alla madre dello stracotto di Parma», ovviamente riferendosi alla signora Paolina. Ebbene, la lettera venne regolarmente recapitata al ristorante oltretorrentino. Ben diverso, come utenza, dalle osterie che lo circondavano, il Leonida, non snobbò mai nessuno e, specie alla domenica, dalla porta secondaria della cucina, si affacciavano alcune anziane dei borghi con i loro «bronzén» che venivano riempiti di ottimo e profumato brodo.
Il ristorante fu attivo anche durante la guerra vedendo alternare, ai suoi tavoli, ufficiali tedeschi e poi inglesi ed americani che portarono in patria, non solo il ricordo, ma alche le ricette dei vari piatti facendo da cassa di risonanza alla varie guide turistiche dei rispettivi Paesi che non lesinarono al «Leonida» un «very good». Una gioia per Pippo Rossi, la mamma Paolina e la moglie Ada , vestali della cucina. Anche Aldo Emanuelli nel suo «Osterie parmigiane» (la Bodoniana-1931) dedicò al locale un significativo passaggio della sua recensione. «Riecheggiavano nel locale molteplici dialetti italici, le grida chiassose di giovani goliardi spensierati e come essi ci sorridono con i vivaci occhi pieni di gioie, di speranze e di avvenire. Sono tutti studenti di Medicina che nell’ultimo trentennio universitario furono assistenti nel vicino Ospedale Maggiore. Molti di essi divennero poi illustri professori e ottimi medici nella città nostra, mentre molti altri le necessità della vita e della professione portarono lungi da noi disperdendoli, medici condotti nelle campagne!». Questo era Piazzale Inzani ieri. Oggi, le cose sono radicalmente cambiate e le abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni.
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