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IL FEMMINICIDIO DI VIA MARX

Il fucile? Illegale. La procura: «Omicidio premeditato»

Il fucile? Illegale. La procura: «Omicidio premeditato»

di Georgia Azzali

17 Maggio 2024, 03:01

Un colpo a bruciapelo all'addome. Non ha avuto il tempo di reagire, di guardare negli occhi l'uomo che aveva sposato quasi cinquant'anni fa mentre sparava. Silvana Bagatti è morta nel suo letto, mercoledì mattina, in quella casa dalla quale pare non uscisse più da un tempo infinito. Ma ci sono ancora tanti (troppi) punti interrogativi da chiarire sul delitto di via Marx. A cominciare dall'arma utilizzata da Giorgio Miodini: una carabina detenuta illegalmente. Perché è vero che all'ex tassista risulta intestato un fucile da caccia, ma non è quello da cui è partito il colpo che ha ucciso Silvana. Un fucile, quello legale, che in casa non è stato trovato e al momento non si sa che fine abbia fatto. Così come bisognerà capire da dove provenga l'arma del delitto. Un elemento fondamentale che - almeno per ora - cambia lo scenario: omicidio premeditato, oltre che aggravato dal coniugio. Due aggravanti che, senza attenuanti, hanno un unico significato: ergastolo.

Le indagini, affidate ai carabinieri e coordinate dal pm Paola Dal Monte, sono nella fase iniziale, ma queste sono le contestazioni con cui Miodini si presenterà stamattina davanti al gip Sara Micucci per l'interrogatorio di convalida dell'arresto. L'autopsia, invece, si svolgerà nei prossimi giorni, ma deve ancora essere fissata.

Un caleidoscopio, l'omicidio di Silvana. Più complesso di quanto si potesse immaginare nelle prime ore. Certo è che la procura non crede al delitto d'impeto. Eppure, diversi vicini e amici hanno parlato di un uomo sempre più provato per le condizioni della moglie che - a suo dire - sarebbe stata prostrata da anni da una gravissima forma di depressione. In casa, tuttavia, non sarebbe stata trovata alcuna documentazione medica che certifichi questo profondo malessere di Silvana. «L'aggravante della premeditazione è chiaramente molto pesante, ma all'inizio può accadere che le contestazioni siano molto ampie e poi magari si ridimensionino - sottolinea Federica Ceresini, difensore d'ufficio di Miodini -. Ma al momento non voglio aggiungere altro: valuteremo cosa fare domani (oggi, ndr) durante l'interrogatorio».

È il primo appuntamento davanti a un giudice, ma Miodini, rinchiuso da mercoledì in una cella di via Burla, potrebbe avvalersi della facoltà di non rispondere. Finora, pare si sia limitato a dire agli inquirenti: «L'ho ammazzata». Senza aggiungere altro.

Parole scarne e drammatiche. Le stesse che Miodini, 76 anni come Silvana, aveva pronunciato mercoledì, verso le 8,30, quando aveva chiamato il 113. Ed era cominciata la corsa contro il tempo di polizia e carabinieri: quel tempo dopo il dramma che può generarne altri. Ma Miodini era in attesa, quando sono arrivati: ha aspettato in quell'appartamento al piano terra, con la camera da letto che affaccia sul vialetto d'ingresso. Immobile, apparentemente distaccato, mentre gli investigatori mettevano al sicuro l'arma e cominciavano ad aggirarsi tra le stanze di casa.

Il rifugio di Silvana. Il bunker che la proteggeva dal mondo. Le voci dei vicini e dei parenti sono testimonianze univoche. «L'ultima volta che ho visto stare bene mia zia è stato il giorno del mio matrimonio, poi il buio», ha raccontato l'altro giorno il nipote Alberto Miodini.

Si sarebbe spenta nel tempo, Silvana. Eppure, in casa non ci sarebbe stata traccia di cartelle o prescrizioni mediche in questo senso. Ma forse Silvana rifiutava qualunque aiuto.

L'unico che si vedeva ancora fuori da quelle quattro mura era Giorgio. Ma negli ultimi tempi appariva sempre più cupo. Disilluso e pessimista. All'inizio della scorsa settimana aveva chiamato anche l'Ausl per parlare con un'assistente sociale. Era stanco. Esasperato. Ma in casa aveva anche un fucile non denunciato.

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