Intervista
«Non hanno un amico» è lo spettacolo che Luca Bizzarri presenterà stasera in piazzale San Francesco dalle ore 21, nella prima giornata del Festival della Lentezza in calendario fino domenica. «Non hanno un amico» è conseguenza del grande successo avuto dall’artista genovese con l’omonimo podcast: «Oggi questi show si definiscono “stand up”. A me piace chiamarli monologhi. Durante il mio spettacolo parlo di paure, di situazioni imbarazzanti, del rapporto tra genitori e figli. Fondamentalmente cerco di portare sul palco la nostra vita».
Quale obiettivo si è posto con «Non hanno un amico»?
«La verità è che avevo tanta voglia di tornare a teatro. È il posto dove sono nato. Il lavoro per cui ho studiato. Il podcast mi ha dato tante idee. E allora ho pensato che potesse essere un’ottima fonte per scrivere un testo da presentare “live” al pubblico».
Luca Bizzarri e la nostra città: qual è la storia che vi unisce?
«Sono emiliano da parte di padre. Di Castelnuovo Monti per la precisione, tra Parma e Reggio. Mangiare i cappelletti mi è naturale quanto assaggiare il pesto alla genovese. Quando vengo in queste zone, ascolto accenti che amo. Conosco molto bene le montagne del territorio, un po’ meno la pianura».
Come nasce uno spettacolo teatrale da un podcast?
«Credo sia stato un bel lavoro, quello realizzato con Ugo Ripamonti: non è stato particolarmente complicato perché i temi erano già chiari e, a mio parere, interessanti da ascoltare. Inoltre c’è sempre la possibilità di qualche cambiamento: il testo che proporrò al Festival della Lentezza sarà diverso da quello dello scorso inverno al Teatro al Parco. Questo perché, inevitabilmente, l’attualità si insinua».
Quali sono i temi che divertono maggiormente il pubblico?
”Parto dal presupposto che lo spettacolo ha un andamento costante. Ma ammetto che i picchi si ottengono quando la gente si riconosce in quello che dico: come noi adulti trattiamo i figli e come i nostri figli trattano noi, per esempio. Oppure i problemi legati al mondo della scuola. La quotidianità colpisce sempre».
Chi oggi avrebbe più bisogno di un amico?
«Tutti noi ne avremmo bisogno. Gli amici veri non sono quelli che dicono sempre “sì” ma coloro che ci avvertono quando stiamo sbagliando. Purtroppo i nostri politici non hanno tanti veri amici».
Lei ne ha? Li ascolta?
«Ne ho pochi perché non è facile essere mio amico. Io ogni tanto sparisco, sono sbadato, dimentico anniversari e compleanni. Però sono molto attento a chi mi mette in guardia perché sto sbagliando. Sono un perfezionista: ascolto e rifletto sui consigli delle persone vicine».
Cosa la fa ridere?
«Non sono esigente, da questo punto di vista. Mi accontento di poco: le pernacchie mi divertono. La stupidità della gente mi fa ridere. O meglio, sto lavorando su me stesso per trasformare in risata, la rabbia che nasce in me quando vedo persone che parlano o agiscono in maniera stupida. Non è semplice ma sto imparando».
Il grande pubblico inevitabilmente la unisce a Paolo Kessisoglu: che significato ha per lei questo successo solitario?
«Sono due binari che procedono paralleli. Il mio lavoro, però, è sempre lo stesso: scrivere. Con Paolo viene reso a livello televisivo. Quando sono solo, vivo le mie stesure a teatro. Il rapporto con lui, tuttavia, è talmente intenso e familiare che preparare testi per me o per noi, non cambia nulla».
Pietro Razzini
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