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L'intervista

Con «Che ci faccio qui in scena» Domenico Iannacone all’Arena Shakespeare: «Il teatro? Una casa dove trovare riparo»

Con «Che ci faccio qui in scena» Domenico Iannacone all’Arena Shakespeare: «Il teatro? Una casa dove trovare riparo»

di Claudia Olimpia Rossi

25 Giugno 2024, 03:01

«Che ci faccio qui in scena»: Domenico Iannacone all’Arena Shakespeare di Fondazione Teatro Due, domani alle ore 21, anima le «storie minime» spigolate nella vita del Paese, dilatandole con il respiro profondo del teatro. Le sue inchieste di narrazione civile, già amate dal pubblico televisivo, pluripremiate in Italia e all’estero, portano il neorealismo nel racconto giornalistico. Con poesia e cinema come numi tutelari.

Come è cambiato il suo modo di narrare, incontrando il teatro?

«Il teatro è una presenza fisica: mi fa uscire dallo schermo, rompere la quarta parete, ritrovare vicinanza con le persone. Va in profondità, apre mondi inaspettati, è una casa dove trovare riparo, una rete di protezione. La televisione per me è una specie di rarefazione linguistica, mentre a teatro il verbo mi risuona dentro e le storie riprendono vita con la parola. Poi c’è la questione di mettersi a nudo. Chi racconta non resta indifferente: a teatro vivo le emozioni provate nel dialogo con le persone».

In che senso definisce il teatro «una rete di protezione»?

«Ha salvaguardato l’idea di un progetto che avevo in mente, dandomi la possibilità di continuare a raccontare una parte dell’umanità che spesso non ha voce. La televisione mi ha congelato per due anni e mezzo. Io, invece, ho resistito in una sacca di resistenza civile che mi ha permesso di non gettare la spugna. Credo che il pubblico dei teatri italiani lo abbia capito».

Qual è la parte di mondo che vuol raccontare?

«Mi ero accorto che la televisione non si occupava di quelle che definisco "storie minime". Mi sembrava uno spreco trascurare tutto questo mondo intorno a noi. Così ho creato una "contro narrazione". Avevo questa esigenza per "I dieci comandamenti": nato come un decalogo di Kieślowski, il programma alla fine è diventato contenitore di mondi disparati che lì trovano la possibilità di essere raccontati. Attraversando il Paese, "I dieci comandamenti", ad esempio, ha anticipato questioni ambientali e d’identità di genere già dieci anni fa».

Come fece il documentario «Lontano dagli occhi», del 2016, sul tema dei migranti. Ha dovuto pagare il fio di questo coraggio? E’ stato osteggiato?

«Sì. Mi sono in effetti accorto che le mie trasmissioni sono state fortemente politiche, pur avendo lavorato con una metodologia che mi teneva lontano dalle stanze del potere. Non intervisto mai nessun politico. A me serve la fotografia dei luoghi, la testimonianza diretta. Questo ha sottovalutato il messaggio, invece recepito dal pubblico, che lo ha accolto come un’istanza sociale».

Un messaggio politico rivolto davvero alla polis?

«Mi riferivo proprio a questo. Nelle ultime puntate un migrante mi ha parlato della sua condizione di persona senza permesso di soggiorno. Da trentadue anni vive in un deposito nella piana di Rosarno, parla un italiano forbito: quando l’ho incrociato per la prima volta teneva in mano il dizionario dei sinonimi e dei contrari. Quella è un’azione politica. Fa capire come dietro ai numeri ci siano le storie delle persone. Come la preside di Caivano che mi parla di scuola. A me piace narrare, come avrebbe detto Capote, a sangue freddo, quando i riflettori sono spenti».

Qual è la sua genesi artistica, nella connessione tra cinema e giornalismo?

«Mi sono nutrito davvero di tanto cinema. Il neorealismo per me è stata una pietra miliare. Dedico una parte di questo spettacolo a "Ladri di biciclette", opera simbolo dei bisogni minimi. Il cinema mi ha dato il "la". Inoltre, sono stato molto influenzato dalla poesia. Musa ispiratrice è stata per me Amelia Rosselli, che ha accolto e pubblicato le mie poesie quando non ero neppure diciottenne. Di recente ho ritrovato i dattiloscritti che le mandai. In scena porto anche quei fogli. Nella fase in cui conobbi Amelia, ero influenzato dalla frequentazione di grandi poeti viventi, tra cui Bertolucci, Luzi, Sanguineti, Caproni. Non scrivo poesie da tanto: mi piacerebbe ricominciare. Però ho sempre ben chiaro l’incipit di quello che faccio: la folgorazione è arrivata lì ».

Ebbe modo di conoscere anche Attilio Bertolucci? Che ricordo ne serba?

«Ho frequentato Bertolucci a Roma con Amelia Rosselli. Qualche volta sono andato a casa sua. Me lo ricordo come un vecchio saggio che lavorava le parole con una dolcezza infinita. Mentre Amelia era molto taciturna, quasi gutturale, lui aveva nella parola una specie di suono molto accattivante».

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