Amarcord
Quando la classe operaia va in paradiso. Quel destro sul primo palo a spiazzare Stojanovic fissò a pochi minuti dalla fine il risultato sul definitivo 3-1 contro l'Anversa e suggellò la magica notte di Wembley, laddove il Parma alzò al cielo la Coppa delle Coppe davanti a oltre 12mila tifosi gialloblù in estasi. Era il 12 maggio 1993 e l'allora quasi 34enne Stefano Cuoghi, nell'ultimo mese della sua carriera da calciatore, appose il timbro al primo successo europeo nella storia del club. Ora, a distanza di 31 anni, il nuovo incrocio con i belgi (domani alle 18,30 al Bosuilstadion di Anversa) in un'amichevole amarcord dal forte sapore nostalgico. Perché certi momenti non si possono cancellare dalla memoria. «Ormai è un ricordo un po' sbiadito -sorride l'ex centrocampista, classe '59, che in passato ha indossato anche le maglie di Modena, Milan, Perugia, Pisa e ora vive a Città della Pieve insieme alla compagna- però penso a una serata particolare della mia vita in cui ho raccolto tutto quello che avevo seminato negli anni precedenti. Vincere una Coppa europea e segnare in un tempio del calcio come Wembley, per me che non ero certo un goleador, è stato un premio alla carriera».
Come ha vissuto gli istanti della sua rete?
«Sandro (Melli ndr) voleva la palla ma poteva venire giù il mondo che non gliel'avrei mai passata. Sapevo che un'occasione così non mi sarebbe più ricapitata. Lui aveva già fatto gol, era giusto che calciassi io in porta».
Cosa direbbe a Severeyns che all'epoca non si sarebbe aspettato un suo gol?
«Anche per me fu una sorpresa ritrovarlo nel tabellino dei marcatori visto che ai tempi del Pisa non segnava mai -sorride- eravamo compagni di squadra e andavamo molto d'accordo. Una persona squisita ma quella sera non potevamo non vincere».
Cosa la emoziona di più a distanza di tempo?
«Il fatto di essere riusciti a portare tanta gente a Londra per una città che fino ad allora non era troppo conosciuta in ambito calcistico. Quando siamo entrati in campo e alzai lo sguardo verso il pubblico provai una sensazione bellissima».
C'è un aneddoto che le viene in mente?
«La sera prima della partita andai in camera dal massaggiatore Bozzetti e dal compianto medico Zanichelli. Mi estrassero 120 cc di sangue dal ginocchio sinistro e misero in dubbio la mia presenza ma io non volevo sentire ragioni: pregai di non dire niente a nessuno, mi fecero la fasciatura che mi tolsi di nascosto negli spogliatoi. Durante la rifinitura Scala, con il quale avevo un rapporto molto diretto, chiamò me e Osio chiarendo che stava facendo le ultime valutazioni ma la mia risposta fu secca. «Io gioco e basta». Poi rimase fuori Tino (Asprilla ndr)».
Fu quello il momento più bello vissuto al Parma?
«No, scelgo l'assist a Osio nella finale di Coppa Italia del 1992 contro la Juventus. Sarà perché eravamo sfavoriti, avevamo perso all'andata e giocavamo nel nostro stadio o più semplicemente fu il nostro primo trofeo però forse quella gioia vale anche più di Wembley».
Qual è stato il segreto del primo Parma di Scala?
«Eravamo forti e bravi, stavamo bene insieme sia come qualità tecnico-tattiche che umane. Avevamo un feeling incredibile e lo dimostrano i risultati raggiunti. Negli anni successivi arrivarono altri giocatori di spessore e provarono ad alzare l'asticella ma non fecero tanto meglio di noi».
Cosa significa Parma sul piano personale?
«Parma ha rappresentato tantissimo per me, ho abitato lì dieci anni a fine carriera. Un posto dove si sta bene e si vive bene, che ha riempito un periodo meraviglioso della mia vita. Mio figlio Marco mi rinfaccia ancora di esser venuto via da Parma».
Come vede il Parma attuale?
«Mi auguro possa fare benissimo, lo meritano società, tifosi e, in particolar modo, il presidente Krause. Dalla B alla serie A è molto diverso, deve fare qualche acquisto importante in ogni reparto per dare sicurezza alla squadra. Bernabé, Bonny, Man e Mihaila sono pronti a fare il salto di qualità ma al loro fianco servono alcuni elementi di provata esperienza per accusare meno la differenza di categoria».
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