×
×
☰ MENU

L'intervista

Andrea Giani e l'incantesimo spezzato: «Quella medaglia d'oro alle Olimpiadi la inseguivo da sempre»

Andrea Giani e l'incantesimo spezzato: «Quella medaglia d'oro alle Olimpiadi la inseguivo da sempre»

di Vittorio Rotolo

13 Agosto 2024, 03:01

Da Atlanta a Parigi: ventotto anni per chiudere un cerchio. E prendersi quella medaglia d'oro che la «Generazione dei fenomeni» si era vista sfilare dal'Olanda, Qualche ora prima del capolavoro della Nazionale femminile firmato dal condottiero Julio Velasco (con Lorenzo Bernardi assistente), era stato Andrea Giani in campo maschile a spezzare l'incantesimo. L'ex bandiera della Maxicono Parma lo aveva fatto portando al trionfo la Francia, capace di schiacciare la temibilissima Polonia in finale. «Delle sconfitte del passato rimane la cicatrice: il dolore non lo senti più, ma c'è sempre quel segno. Indelebile. Vincere un'Olimpiade da allenatore ha un sapore diverso. Come diversa è la forma stessa dell'impresa» riflette «Giangio».

In cosa consiste la differenza?

«Mettere a terra l'ultimo pallone o prodursi in un gesto tecnico straordinario portano in dote un misto di adrenalina e di emozioni che sono esclusivamente appannaggio di un giocatore. E per questo rese uniche. Prima della finale, parlando con qualcuno dei miei ragazzi, ho spiegato loro che conosco perfettamente il peso che ci si porta addosso quando devi scendere in campo. Da allenatore, questo fardello non è così ingombrante: io non rischio di prendermi un ace o una murata in faccia, così come non convivo con la paura di sparare un attacco fuori. L'allenatore, semmai, ha la responsabilità di trovare soluzioni tecniche e tattiche affinché la propria squadra migliori».

Non è nemmeno poco.

«Certo che no. Ma è comunque una cosa ben differente da vincere o perdere sul campo. Per un allenatore che arriva ad ottenere un risultato di prestigio, come può essere la vittoria di un campionato o di una coppa nel caso di un club o appunto di una medaglia alle Olimpiadi, la soddisfazione più grande risiede nel lavoro che ha permesso al gruppo di progredire, fino ad essere competitivi».

Da quanto aspettava questo momento?

«Mi vien da dire da trentasei anni. Da Seul, i miei primi Giochi olimpici, sebbene quella nostra Nazionale non fosse sicuramente tra le accreditate alla conquista del podio. Che cercassi da sempre quella medaglia d'oro l'ho confidato anche ai miei giocatori: in questo caso, però, l'ho fatto dopo la finale, non prima. Era il mio sogno, l'oro olimpico, ed è proprio per inseguirlo che ho accettato la proposta della Francia, una squadra che gioca per vincere».

Si aspettava, in meno di tre anni, un exploit di questo tipo?

«Oggi ripenso a tutto il lavoro fatto insieme allo staff, in particolare nell'ultimo anno quando mi sono dedicato a tempo pieno alla preparazione di queste Olimpiadi. Non è stato semplice. Sono arrivato sulla panchina della Francia nel 2022: abbiamo subito vinto la Vnl, poi siamo usciti ai quarti del Mondiale contro l'Italia. L'anno scorso abbiamo dovuto fare i conti con una serie di infortuni. Nel frattempo il divario con le rivali, a cominciare proprio dagli azzurri e della Polonia, cresceva. Dopo Tokyo, il livello si è alzato in maniera vertiginosa: queste due nazionali hanno saputo esprimere una qualità di gioco incredibile. La loro forza l'abbiamo sperimentata sulla nostra pelle».

Qualcosa è cambiato visto che a Parigi, in semifinale e poi in finale, avete travolto entrambe.

«I percorsi nascono dalle idee e dalla capacità di svilupparle. Noi abbiamo cambiato sostanzialmente tre cose: la battuta, il muro e l'attacco. Con un lavoro certosino che, giorno dopo giorno, ha saputo restituire ai giocatori la consapevolezza dei miglioramenti fatti in ciascuno di questi fondamentali. Del resto, è attaccando bene o facendo la cosa giusta in battuta o a muro che metti pressione agli avversari: questa è una qualità tecnica che la Francia ha acquisito. Ma non è l'unico fattore che ci ha permesso ai arrivare a questo oro».

Cosa c'è di altro?

«Beh, siamo ad esempio l'unica squadra che nella rassegna olimpica ha schierato praticamente tutti i giocatori. E tutti sono stati determinanti. Aggiungo quindi la solidità mentale, evidenziata dai tie break vinti: è un'altra caratteristica di spessore, fa parte del nostro dna».

Ha sfatato il tabù olimpico un giorno prima di Velasco, suo c.t. ad Atlanta '96, e di un altro protagonista di quella Nazionale, Lorenzo Bernardi.

«Intanto era stato bello ritrovarsi al Villaggio olimpico con Giulio, Lollo e Fefè: noi di Atlanta, quasi trent'anni dopo insieme a Parigi e tutti con la possibilità concreta di arrivare alla medaglia. Nella storia della pallavolo, una cosa simile forse non era mai capitata: è il segno che quella è stata una grande scuola. Velasco mi ha mandato un bellissimo messaggio dopo la nostra finale contro la Polonia: l'ho ringraziato e gli ho risposto con alcuni gesti che lui ha compreso benissimo (ride, ndr). Sono felice di quello che ha fatto: Giulio è un maestro, sempre lucido e obiettivo, sa cosa fare. Lo strapotere delle azzurre, in questi Giochi, è esplicitato dai numeri, basti pensare che hanno perso solo un set in tutta la manifestazione, ma soprattutto dalla tranquillità con cui le ragazze affrontano ogni match. Hanno scritto una pagina memorabile».

Giani, nei giorni scorsi lei ha lanciato un appello al presidente Mattarella per la questione del doppio incarico: pensa che dopo questo oro con la Francia possa cambiare qualcosa?

«No, non cambierà nulla. La cosa che fa più male, da tesserati, è la disparità di trattamento. Velasco, nello staff della Nazionale femminile può contare su Barbolini e Bernardi, che hanno entrambi un incarico a livello di club. Nella maschile ciò non può avvenire. Bisognava prendere una posizione chiara e netta, in primis la Federazione, ma nessuno lo ha fatto. Parliamo di una regola che non esiste in nessuna altra parte del mondo, solo in Italia. Dalla prossima stagione andrò in Polonia (Giani ha firmato con lo Zaksa, ndr). Il lavoro di un professionista va tutelato, non può essere soggetto a limitazioni. E poi non dimentichiamo che l'epopea della pallavolo, nel nostro Paese, è iniziata con l'avvento di allenatori stranieri di primissimo livello: gente come Bebeto, lo stesso Velasco, Doug Beal ha permesso ai club di compiere un notevole salto di qualità. Ci sono tanti miei bravissimi colleghi che non vengono a lavorare nel nostro campionato perché altrimenti dovrebbero rinunciare alle nazionali, esperienza che invece consente ad un allenatore di migliorarsi».

Vittorio Rotolo

© Riproduzione riservata

CRONACA DI PARMA

GUSTO

GOSSIP

ANIMALI