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C'era una volta

I «Frati cerconi» e le storie di Fra Ranaldo, protettore dei fungaioli

I «Frati cerconi» e le storie di Fra Ranaldo, protettore dei fungaioli

di Lorenzo Sartorio

23 Settembre 2024, 03:01

Settembre e ottobre, mesi da funghi. E, se in campagna, in questo periodo, erano terminate le raccolte «äd tomàchi, sigòlli e bärbi» (pomodori, cipolle a barbabietole), in montagna, iniziava la non meno importante ed impegnativa raccolta «äd fónz». Fungaioli non lo si diventa, lo si nasce. Intendiamoci, lo si si può anche diventare però, se non si possiedono determinati requisiti, si può diventare solo dei «cavafunghi». Il fungaiolo vero, oltre conoscere alla perfezione i boschi e le praterie delle sue valli, innanzitutto, ama la propria terra e le tradizioni antiche che furono patrimonio morale dei suoi vecchi, non sradica il fungo come potrebbe fare un dentista apprendista - stregone quando cava un dente senza anestesia.

Il fungo va dolcemente raccolto per non fare danni all’ambiente e possa rinascere. Ma, soprattutto, il fungaiolo vero, conosce i propri limiti, quindi, cerca di evitare di mettersi in pericolo per non mettere, a loro volta in pericolo, le squadre di soccorritori che sarebbero costretti ad intervenire, a volte, rischiando la vita. Come tutte le categorie, anche i fungaioli, quelli parmigiani, reggiani e lunigianesi hanno un loro protettore: Fra Ranaldo, al quale, in particolare, si raccomandava chi, un tempo, andava per funghi soprattutto per sfamare la famiglia. Ma chi era questo religioso che vagava anticamente lungo i sentieri dei nostri monti con l’inseparabile asinella? Se andiamo indietro nel tempo ad un Frate Ranaldo, Jacopone da Todi, dedicò la Laude 28: «Frate Ranaldo do’ si andato?» Comunque, anche alcuni fungaioli parmigiani sostengono di averlo incontrato come se il povero frate vagasse ancora tra i suoi boschi.

«Chi fosse davvero Fra Ranaldo - è scritto in un blog del Parco Nazionale dell’Appenino Tosco Emiliano- di preciso non si sa; si narra di lui quale incontro fortuito nelle foreste di faggio del nostro appennino, si dice giungesse dalle piane di Scarzara fino a spingersi sui crinali sopra il Passo del Cerreto, sempre accompagnato da Rianna, la sua fidata asinella. Se fosse frate, pellegrino o mago non è dato saperlo, né che cosa lo spingesse a vagare per quei monti: fu però subito evidente il senso di gratitudine che lui continuamente manifestava per poter condurre una vita quale la sua, fatta di profumi, viste e sensazioni che solo il monte, la macchia e le rocce potevano dare. Ma ciò che dai monti riceveva, lui ripagava, insegnando il rispetto per quei luoghi, mostrando le chiavi per vivere al meglio le ore tra i monti, perché restassero intatti ai posteri, così come lui li aveva conosciuti. E se poi Rianna sapesse davvero in anticipo il cambio del tempo o se sapesse davvero indicare i funghi per terra con le sue lunghe orecchie, questo fatevelo raccontare da altri che hanno avuto la fortuna di incontrarlo: lo vogliamo ricordare quale esempio di rispetto e di simbiosi con la natura rendendolo qui, come nei boschi, sempre vivo e presente: Fra Ranaldo da Scarzara!». Quasi certamente Frate Ranaldo, che senza alcun dubbio sarà transitato anche nei nostri paesini di montagna confinanti con la Valle dell’Enza e la Lunigiana come Marra, Rigoso, Bosco di Corniglio, paese natale di un altro santo francescano: Frate Ruffino da Bosco. Ranaldo, faceva parte di quei «frè sercón» che non dicevano messa. La loro «messa» la celebravano andando alla «serca» e li si poteva incontrare nei borghi cittadini, nelle impolverate strade di campagna a bordo del loro calesse, oppure nei sentieri di montagna come appunto Frate Ranaldo.

Erano personaggi animati da grande semplicità e da quell’umiltà francescana che è sempre stata la carta vincente degli uomini col saio. Il tempo ed il progresso hanno cancellato anche queste amabili figure. Una volta, quando i conventi ospitavano molti religiosi, il problema di mettere a tavola tutte quelle anime, due volte al giorno, era ben presente nel frate cuoco che doveva giornalmente arrabattarsi con una dispensa quasi sempre vuota. Ed, allora, entrava in gioco lui, al «frè sercón » che, con il sorriso sulle labbra, una buona parola e l’immancabile santino che consegnava ai benefattori, caricava quel ben di Dio sul suo carretto.

All’Annunziata il «sercón» era fra Giuseppe Mantegari che, alla mattina di buon’ora, incrociando gli ortolani e i «casonér» sul Ponte di Mezzo, con il suo calesse trainato dalla mula Dora, andava dai suoi benefattori per raccogliere quello che poteva. Fra Giuseppe, per i parmigiani, era divenuto una figura popolare come lo era diventato per la gente del primo contado che, non appena lo vedeva entrare nella corte, gli riempiva il calesse.

Il frate «sercón» del convento dei Cappuccini, a metà strada tra Babbo Natale e il mago Merlino, era frate Cosma. Magro come un’acciuga, di origini montanare, una lunga barba candida che incorniciava un viso serafico, folti capelli del color della neve, papalina marrone ed un saio logoro e malandato, frà Cosma, andava alla questua per racimolare qualcosa da portare nella cucina del suo convento. Quando giungeva in una corte, frà Cosma, era sempre accolto con grande entusiasmo dalla gente in quanto pareva che in quell’aia fosse giunto il popolare Frate Indovino. In San Pietro D’Alcantara, invece, il «sercón» era il rubizzo e pacioso frà Pellegrino Tagliavini, un bolognese dalla stazza larga e dal cuore grande. Pellegrino, oltre raccogliere la questua in chiesa durante le funzioni, suonare le campane dell’Ave Maria e del Vespro in quella cella campanaria dentro la quale aveva creato una sorta di magazzino personale fatto di cianfrusaglie e il cui accesso era riservato solo ai piccioni, tre volte alla settimana, con la sua borsona di pezza a tracolla, andava «alla serca» nelle strade del quartiere. Frà Pellegrino, oltre essere una gran brava persona, da bolognese, era pure un buongustaio e non lesinava certo un bicchiere di quello buono o un «marsalino» che gli serviva da ottimo carburante per proseguire il suo tour di carità. Un altro francescano che molti parmigiani ricordano ancora è il compianto Padre Silvestro Monterastelli, l’ultimo superstite del convento di San Pietro D’Alcantara il quale, al mattino di buon’ora, con una cassetta di verdura che caricava sulla sua bici tenuta insieme dalla ruggine e dal fil di ferro, percorrendo lo Stradone, andava a portare la verdura del suo orto al convento delle suore del «Bambèn» di Barriera Farini.

Padre Silvestro, che indossava un impermeabile dal colore indefinito tanto era logoro e consunto, proseguiva la sua giornata a raccattare carta di tutti i tipi che vendeva per poter mantenere la mensa del povero alla quale ricorrevano numerosi medicanti per un piatto di minestra preceduto da un segno di croce. Era il «prezzo» per il pranzo che il frate pretendeva dai suoi ospiti. Ci sono alcuni aneddoti popolari sui «frè sercón». Si dice che una volta un questuante con il saio, a bordo del suo calesse, fu fermato da una pattuglia di guardie daziarie in una porta della città. Le due guardie rivolgendosi al frate gli dissero in modo ironico: «che bel caval, l’è fin’na un p’chè ca gl l ‘abia un frè». «At gh ‘è propria ragiòn - replicò al sarcón - a dir la vritè mi vräva un äzon mo an l’ò miga catè parchè jeron bèle tutti int il guärdji dal dasi». Un giorno un «frè sarcón» passò da un contadino per chiedergli un po' di roba per il proprio convento. Il villano gli diede un sacchetto di noci e poi, rivolto al frate, gli chiese il motivo della presenza, in quel periodo, di così tanti grilli. Il frate rispose con candore francescano «gran grilleria gran carestia».

Il contadino, temendo i presagi del frate, si riprese il sacchetto di noci. Poco più avanti il questuante incontrò un altro contadino al quale chiese se poteva dargli qualcosa da mettere sotto i denti. Ed anche lui chiese al frate il motivo della presenza di così tanti grilli nei campi. Il «sarcón» stavolta ribattè: «gran grilansa, gran bondansa» e se ne andò via con il carretto pieno. Belle figure i «frè sercón» di un mondo lontano e perduto sia che abbiano percorso i borghi cittadini che i sentieri tra i boschi con la loro bisaccia a tracolla e la loro fedele mula di fianco proprio come Frate Ranaldo e Fra Giuseppe i quali, in modo molto mite ed umile, incarnarono le parole di Francesco: «Laudato sii, o mio Signore, per nostra Madre Terra, la quale ci sostenta e governa e produce diversi frutti con coloriti fiori ed erba».

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