Intervista
Lo scoppio di un palloncino alla fine di una festa. Tanto sembra durare una vita. Non c’è tempo, bisogna vivere, godere, ardere e allora «Ogni cura si doni al diletto». Sono state ispirate da questo inno al piacere del protagonista Riccardo, i primi appunti di lavoro di Daniele Menghini, che firma «Un ballo in maschera» per il Festival, in scena da venerdì al Teatro Verdi di Busseto.
Il regista torna in terra verdiana dopo aver debuttato al Regio di Parma con «L’elisir d’amore» di Donizetti, nel marzo scorso, nel quale coinvolse la Compagnia I burattini dei Ferrari.
Maestro Menghini, smascheriamo il suo spettacolo, quale idea c’è dietro?
«Sono partito da questo manifesto quasi “eretico” con cui Riccardo esorta la corte a seguirlo in piena notte da Ulrica: “Ogni cura si doni al diletto”, che è un po’ la versione del “Chi vuole esser lieto sia” che aveva già infiammato un’altra corte qualche secolo prima. Che sia la Boston del Seicento o la Svezia del Settecento resta questa urgenza del godere, di mangiarsi la vita, che è una manciata di ore. Per questo vedo “Un ballo in maschera” come un monumento al piacere su cui aleggia un’ombra di morte. Non dimentichiamo che dietro Riccardo Conte di Warwick c’è Gustavo III di Svezia, realmente esistito. Era un despota ma anche un uomo illuminato che, quando ristabilisce la monarchia assoluta, abolisce la pena di morte e fonda l’Opera Reale Svedese. Era un artista e quindi mi sono chiesto cosa succede quando un poeta sale sul trono e va fuori dalle regole, di fronte ad una corte che forse si aspetta un certo rigore. Lui è uno che alle tre di notte porta la corte nell’antro di una maga messa al bando. Sono quindi partito dal concetto di mascheramento e mi sono immaginato che Riccardo imponga, come unica regola, di vivere sempre come all’interno di un ballo in maschera come fuga dalla realtà e dalla morte. Per lui questo è come un riparo anche dalla solitudine che lo attanaglia, come un antidepressivo rutilante al quale aggrapparsi per non guardare in faccia ai propri fantasmi. In Riccardo c’è voglia di trasgredire, vive sempre sotto copertura come Caligola che si travestiva da donna per uscire di notte e vivere la vita del popolo. Anche l’amore per Amelia non è romantico, è una trasgressione, un amore clandestino, è la moglie del suo migliore amico, l’amore è la ricerca di un limite».
Una dimensione teatrale ridotta può sembrare una prigione per la creatività. Può invece rendere più liberi?
«Sì, ti libera dall’ansia di riempire con presenze e volume di voce, ti permette di avere una relazione intima con il pubblico e quindi di fare teatro. E’ un privilegio lavorare sulla recitazione, sul dettaglio. Con i cantanti ho lavorato come con una compagnia di attori di prosa perché alla fine qui dentro c’è Shakespeare, c’è quello scavo dei personaggi che è richiesto da un testo di prosa. La musica è caleidoscopica, crea ambienti e atmosfere, è un Verdi che vuole sperimentare la varietà di stili, di tinte, di colori e per fare regia basta seguire lui che era un grande regista».
Ilaria Notari
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