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Intervista

Stefano Massini arriva a Parma, prima tappa della tournée di «Mein Kampf», e dice: «Il mio spettacolo da Hitler irrita ma è necessario»

Stefano Massini arriva a Parma, prima tappa della tournée di «Mein Kampf», e dice: «Il mio spettacolo da Hitler irrita ma è necessario»

di Mara Pedrabissi

29 Ottobre 2024, 09:33

1924: Adolf Hitler scrive «Mein Kampf» (La mia battaglia), verrà pubblicato l'anno seguente. 2016: la Germania ne consente di nuovo la pubblicazione, dopo un lungo periodo “al bando”. 2024: Stefano Massini, incrociando i testi dei comizi del Führer con la prima stesura del libro, porta a teatro lo spettacolo «Mein Kampf». Dopo il debutto a Milano, al Piccolo, (8- 27 ottobre), Parma sarà la prima piazza della tournée (stasera e domani, ore 20.30, Teatro Due).

Stefano Massini, come le è venuto in mente di mettere in scena temi per i quali si potrebbe provare «Lo schifo» - per citare il titolo di un altro suo spettacolo, quello dedicato all'assassinio di Ilaria Alpi - o, più prosaicamente, un “disagio”?

«Proprio per il motivo che lei dice. Nel senso che si tratta di capire che cosa significhi fare teatro oggi, nel 2024. Se vuol dire proporre un repertorio rassicurante o, come penso io, significhi intendere il teatro come il luogo fondamentale per far “sbattere il muso” contro la parte oscura di noi, la parte che non vorremmo vedere e quindi “schifosa”. Questo spettacolo fondamentalmente è un esperimento e, quindi, non può non dividere, non irritare. Uso una metafora con quel che accade in biologia, in medicina, con i vaccini. II vaccino è un virus che viene inoculato e scatena una reazione immunitaria a quel virus, che però è un virus depotenziato, affinché quando poi tu dovessi trovare il virus vero, il tuo sistema immunitario lo riconosca. Qui la stessa cosa: io sono in un teatro, non in una campagna elettorale. Non sono candidato a niente, sono semplicemente un mediatore tra il pubblico e questo materiale agghiacciante. Ma quando il pubblico, uscito dal teatro, incontrasse chi quelle parole le usa davvero, metterà in campo gli anticorpi».

In tutte queste repliche a Milano, ci sarà stato un pubblico che vota a destra, al centro, a sinistra o che non vota proprio. Come ha reagito?

«Intanto devo dire che il Piccolo è sempre stato stracolmo e non era scontato, proponendo un monologo di questo tipo per 15 serate in un teatro da mille posti... fa 15mila persone. Al di là di questo, devo dire che, quando in primavera presentai il libro, edito da Einaudi, da cui è tratto lo spettacolo, venni anche aggredito, ad esempio al Salone del Libro di Torino. Quindi per lo spettacolo pensavo che sarebbe successo di tutto, invece no. Certo il contenuto comporta un dibattito. Ma mi vien da dire: finalmente!».

Cosa indigna di più?

«Quando invito a pensare perché queste parole abbiano fatto effetto su milioni e milioni di tedeschi. Noi siamo un po' tutti convinti che la Germania hitleriana fosse una Germania di cittadini invasati. Ma è molto più interessante e molto meno consolatorio provare a domandarci perché invece una nazione acculturata, che aveva partorito Goethe e Wagner, sia stata irretita da queste parole. È la domanda per cui qualcuno sobbalza sulla sedia».

E perché accadde?

«Il “Mein Kampf” è un testo assolutamente limitato nei contenuti e ripetitivo ma di grandissima intelligenza comunicativa. Hitler usa lo strumento dell'autobiografia per creare un meccanismo di comunicazione che è ancora attuale, in tutti gli schieramenti. Si presenta come l'outsider, l'underdog, lo sfavorito ai pronostici: “io sono venuto dal nulla, io ero uno che non consideravano, io sono come voi”...».

Quindi un Paese, anche evoluto, è arrivato a una delle pagine più orrende della storia partendo da qui, da un futuro dittatore che si è venduto come «sono uno di voi»?

«Sì. E c'è anche un'altra grande novità nelle pagine di Hitler che, per quanto psicotico e evidentemente invasato, ha un'intuizione fortissima. Dopo la prima guerra mondiale, in una Germania distrutta nell'umore, il futuro Führer comincia ad andare ai comizi di piccoli gruppi politici dove viene inviato come spia dalla polizia tedesca. Lì si rende conto che quegli appuntamenti non funzionano. Capisce che a quella gente non bisogna parlare alla testa ma, cito testualmente, “parlare là dove l'istinto regna incontrastato, nel petto, nello stomaco, nelle viscere là dove regna l'orgoglio, la frustrazione la paura”. Il problema è che questa ricetta è ancora ampiamente replicabile».

A Parma conosciamo il suo modo di intendere il teatro grazie «Lehman Trilogy» visto al Due, per cui ha vinto - unico italiano - il Tony Award negli Usa. La conosciamo anche per interposta persona, tramite Ottavia Piccolo, sua attrice “di riferimento” in certo senso.

«Con Ottavia una “liaison” d'intenti lunghissima fin dal 2005 con “Processo a Dio”. Poi “Donna non rieducabile”, memorandum teatrale su Anna Politkovskaja, “Lo schifo. Omicidio non casuale di Ilaria Alpi” e nella stagione '24-25 verrà al Teatro al Parco con “Matteotti (anatomia di un fascismo)”. In generale il mio rapporto con Parma è bellissimo, sono stato chiamato due anni fa a tenere l'orazione in piazza per il 25 aprile e adesso arrivo a Teatro Due con l'esatto opposto. Ma è un esatto opposto che dobbiamo conoscere per una ragione precisa: Sigmund Freud diceva che, davanti a un trauma, l'essere umano reagisce, per istinto, con tre strumenti che sono rimozione, repressione ed evitamento. Ma così il trauma mette radici e diventa più forte».

Massini, oggi cosa la preoccupa e cosa le dà una fiducia?

«Mi preoccupa il torpore, mi preoccupa la preoccupazione che qualcosa ti possa dar noia o ti possa far sobbalzare. Mi dà fiducia invece il fatto che ci sia una generazione nuova, accorta e consapevole. Mi auguro profondamente che questa generazione possa indignarsi sempre di più».

Mara Pedrabissi

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