tutta parma
In tutte le città, compresa la nostra, le paninoteche non si contano, locali per «aperipranzo» e «apericena» «j 'én fìss cme i stóroj». Si mangia e si beve quasi dappertutto. Sembrerebbe il boccaccesco «paese di bengodi», anche se la realtà è un'altra. Ma lasciamo perdere le tristezze tuffandoci ancora una volta nei più amabili «amarcord» parmigiani. La notizia che ha fatto... notizia nell’ambito della ristorazione (la Gazzetta ne ha ampiamente parlato nei giorni scorsi) è stata la recente apertura di un locale targato «Pepén» nel cuore di Milano: nella «Milano da bere» e, in questo caso, «da… mangiare».
Non poteva esserci occasione migliore, dunque, per raccontare la parmigianissima la storia di Pepén che, più di una storia, assomiglia a una favola. In principio fu pane e salame. Seguirono dopo poco: panini, tartine, «carciofe», carrè, «speciali» e sfoglini con i würstel. Ed ancora: gnocchi, lasagne, anolini, trippa e altre goloserie parmigiane. Quel buchetto di borgo Sant'Ambrogio, che profumava dei sapori di Parma, ebbe un nome che il destino volle si diffondesse nel mondo: «Pepén». Per i parmigiani, a partire dalla fine degli anni Quaranta, l’ombelico del mondo, oltre piazza Garibaldi, fu proprio «Pepén» dove tutta Parma si dava appuntamento per il panino e il bianchino fresco. Un localino di pochi metri quadrati dove due angeli dei fornelli, Pepén e la moglie Lidia, gran facitori di cucineria parmigiana, dispensavano infarciti di rara bontà col salame, col crudo, con il cotto, con il «caval pisst» ed un’inarrivabile maionese e poi quella stupenda carciofa che, anche in pieno inverno, lasciava in bocca il gusto della primavera. Erano i tempi in cui a Parma, più o meno, ci si conosceva tutti e tutti sapevano, mi si perdoni il bisticcio di parole, tutto di tutti.
Un paesone, una borgata, una comunità a dimensione più che umana dove vizi e virtù della gente venivano portati verso il Po dalle acque della «Pärma voladora» e gli insolenti pettegolezzi si aggrappavano al bronzeo manto di Garibaldi o ai morbidi velluti dei tendaggi del «Regio». E, di questa comunità, Pepén era il nume tutelare.
Parmigiani giovani, giovanissimi ed anziani non mancavano di varcare la sacra soglia dov'era tutto un brulicare di gusto. I ragazzini che, negli anni Sessanta, marinavano la scuola, prima ancora di rinchiudersi da Peppino, in piazza Garibaldi, per una partita di boccette, sostavano da «Pepén» e, a mò di piranha, divoravano quello che era in bella vista per poi denunciare sfrontatamente alla cassa la metà della metà di quello che avevano trangugiato. Ma Pepén che, fesso non era, lo sapeva, faceva finta di niente e stava al gioco tanto sapeva che, alla fine della giornata, quelle erano piccole perdite che non avrebbero inciso sul florido bilancio dell’azienda familiare. E poi, da giovane, la fame la fece anche lui al punto di sapere cosa volesse dire avere tanto appetito e pochi soldi in tasca. Pepén Clerici nacque da una famiglia poverissima in una vecchia casa di Volta Antini nel cuore della città antica. Una famiglia numerosa i Clerici: padre, madre e ben dieci figli. Quindi, dodici bocche da sfamare. E, molte volte, spettava proprio a lui, al nostro Pepén, classe 1916, reperire cibo per la famiglia: «'na cartàsa äd cavàl pisst äd tèrsa», oppure tre etti di cicciolata non di taglio freschissimo. Una lotta quotidiana per fare spesa e chi ci rimetteva era sempre quel povero bottegaio che, a forza di scrivere sul nostro libretto, era diventato un professore di calligrafia». Così scrisse Pepén nel «Pepén Press», il notiziario che pubblicò quando si trasferì a Leivi proprio per mantenere un collegamento con la sua amata Parma.
Poi finalmente la svolta. Mentre i fratelli Italo e Giulio calcano le scene dei teatri cittadini rappresentando con la loro compagnia alcune piece dialettali davvero divertenti, Pepén, dopo la Liberazione e dopo avere servito la Patria combattendo sul fronte balcanico, rileva un piccolo bar di borgo Sant'Ambrogio, gestito dalla sorella Emilia, con i soldi prestati da una zia ambulante di casalinghi. L’idea di Pepén era creare un locale che a Parma non esisteva nemmeno nel libro dei sogni. E fu un trionfo. La parmigianità, immediatamente, si riconobbe in questo locale tant'è che «'na sira d' farvär dal '47 - da Pepèn - dal cór äd pòch pramzàn è nassù la Famija Pramzana».
Negli anni Cinquanta-Sessanta, «Pepén», diventa il locale di fiducia delle famiglie di Parma per pranzi, ricevimenti, battesimi e nozze. Così senza allargare il locale, Pepén allargava il suo menù e la lista dei vini di tutte le parti del mondo, perfino australiani e africani, che tappezzavano le vecchie pareti di legno. Non c’era più nulla che non gli si potesse chiedere: code di canguro, nidi di rondine, caviale iracheno, scatolame più prezioso e persino le pinne di pescecane. Aveva tutto per tutti. Era felice, Pepén, e la miseria, ormai, non era che un lontano ricordo. Poi ancora una raffica di dispiaceri con la morte dei fratelli scomparsi uno dopo l’altro: Italo che aveva fatto da padre alla numerosa famiglia, Giulio (entrambi attori dialettali nella compagnia del grande Alberto Montacchini), Dardine (Dinén), Dario. Pepén, in quel particolare frangente della sua vita, fu preso da grande sconforto e, nonostante la vicinanza di una moglie straordinaria, nel 1962, come un «re» abdicò a favore del suo allievo Gino Ferrari, che, per anni, portò avanti con capacità e simpatia tutta «pramzana» l’arte del panino consacrata dalla parmigianità più vera incarnata da un uno dei suoi più autentici rappresentanti nonché habitué del locale: il conte Lodovico del casato di «Sifolòn». Il monarca di Borgo Sant’Ambrogio aveva quindi deciso di abbandonare il trono per salire su di un altro, a Leivi, nell’amico golfo del Tigullio, dove un Pepén ritrovato rispolverò il suo estro e la sua passione e diede vita ad un altro tempio gastronomico meta di innumerevoli personaggi che in quella cattedrale del gusto parmigiano rilasciarono dichiarazioni, attestati, dediche. Ed è proprio a Leivi dove due belle anime parmigiane, Pepén e la Lidia, decisero di mantenere un continuo collegamento con la propria terra, che nacque un notiziario che trasudava parmigianità, il «Pepén Press».
La direzione del foglio ligure- parmigiano venne affidata al popolarissimo Goliardo Chiesa (detto «lénngua sutìla» ), tipografo della prima Gazzetta con sede storica in strada Saffi e «gran sacerdote» della più schietta parmigianità. Ed anche Leivi, come borgo Sant’Ambrogio, si trasformò in un trionfo più volte cantato anche dall’inarrivabile Gigén Vicini, il poeta del cuore parmigiano. Oltre Vicini, numerosi aedi cantarono Pepèn e la Lidia: da Giovannino Guareschi che personalizzò per il suo amico di borgo Sant'Ambrogio una cartolina pasquale quando lo scrittore era rinchiuso nel carcere di San Francesco, a Pier Maria Paoletti, Egisto Corradi, Bruno Raschi, Pier Boselli e a tanti altri virtuosi della penna. Ma fu l’indimenticato direttore della Gazzetta di Parma Baldassarre Molossi che vergò il più bell'elzeviro dedicato all’amico Pepén. Era il 1977 e Sarre scriveva: «…la piazza di una volta era il luogo d’incontro della borghesia. Noi ragazzi non ci andavamo. Ci davamo appuntamento sotto l’orologio del tram (l’ «arlój picén», ndr) che era al limite della piazza che conta e ci ritrovavamo da “Pepén” in borgo Sant'Ambrogio dove, nello spazio di pochi metri quadrati, trovavamo il sorriso e l’amabilità del titolare e della signora Lidia che allietavano il nostro mangiare e bere in fretta. Ma che bello, caro Pepén, quando a mezzanotte tiravi giù i battenti della tua bottega e accoglievi noi giovani cronisti della Gazzetta pieni di speranze e di illusioni, per uno spuntino che, se poi si concludeva a casa tua, diventava un’epica cena pantagruelica». Parole che si tramutano in musica. Una musica che diventa melodia forse troppo lontana di cui i «sopravvissuti» avvertono un’eco lontana, ma pur sempre in grado di suscitare forti emozioni. E un gran magone.
Lorenzo Sartorio
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