EDITORIALE
Come si fa a non essere solidali con quel capotreno che ha rischiato di finire morto ammazzato a Genova solo perché aveva chiesto i biglietti ai due che, dopo essersi rifiutati di mostrarli e di pagarli, lo hanno aggredito selvaggiamente prima a calci e sputi e poi a coltellate?
Come si fa a non inorridire di fronte all’ennesimo episodio di violenza cieca e gratuita ai danni di un pubblico ufficiale (tale è infatti il capotreno, nei cui confronti vale la tutela prevista dagli articoli 336 e 337 del Codice penale)? Ed ancora, come si fa a sorvolare sull’identikit degli aggressori (lui, quello che ha sferrato i fendenti solo per un soffio non mortali, un 21enne egiziano “regolare” ma con precedenti per lesioni personali e detenzione di stupefacenti; lei, una ragazzina appena 15enne anch’essa di origini egiziane e “fidanzata” del gentiluomo di cui sopra)?
L’immagine di Rosario Ventura, il 44enne capotreno aggredito, riverso in un lago di sangue ai piedi di un vagone del regionale Genova Piazza Principe - Busalla (costo per un adulto euro 4,50) è la sintesi agghiacciante di un tempo che ormai non ti lascia più nemmeno respirare, tanto le cronache rigurgitano letteralmente di notizie dello stesso genere.
In quei fotogrammi fissati con il telefonino da qualche atterrito e impotente passeggero presente alla scena c’è, se non tutto, quasi. C’è la normalità della vita di ogni giorno sostituita da una sorta di “stato di assedio” permanente che, di normale appunto, non ha più nulla. C’è l’insofferenza verso le regole anche minime del vivere civile che, pur sempre esistita, oggi trasmuta con irrisoria facilità in aggressione aperta verso chiunque - peggio ancora se indossa una divisa! - osi cercare di farle rispettare magari anche con il massimo garbo (prima di essere aggredito, il controllore aveva anche offerto ai due giovani di non far loro pagare alcuna multa). E c’è la definitiva sconfessione di quanti - ai più vari livelli e negli ambiti più diversi compresa l’informazione - insistono grottescamente nel distinguere fra “violenza reale” e “violenza solo percepita”. Qualcuno vada a raccontare la differenza alla signora Daniela, la moglie di Rosario Ventura, che in un post buttato giù di getto dopo una notte insonne ha scritto fra l’altro: «Sono ancora ko dallo spavento… Non avrei mai pensato fino a qualche anno fa che essere la moglie di un capotreno fosse a tratti così pieno di palpitazioni. Vedere quella foto di lui a terra, è stato devastante per me e per i miei bambini. Incassiamo le ferite nel corpo e anche un po’ nell’anima. Deve finire tutto ciò... non so come, ma vorrei aspettare mio marito rientrare a casa senza più batticuore!». Ebbene, i sindacati dei trasporti hanno risposto ieri al «non so come» della signora Daniela con uno sciopero nazionale di tutto il personale viaggiante dei treni. Ma uno sciopero (per di più di 8 ore) contro chi? Francamente, non lo si è capito bene. Forse, contro quei giudici che si rifiutano di convalidare il trattenimento dei migranti provenienti da Paesi come l’Egitto (lo stesso dell’accoltellatore di Genova) ritenuti dai medesimi giudici «non sicuri»? Oppure, contro governo, Regioni e Gruppo Fs Italiane, quest’ultimo tenuto a garantire la massima sicurezza anche dei viaggiatori e del personale di servizio?
Certo, se qualcuno aveva promesso di potenziare in determinati orari la vigilanza sui convogli ricorrendo anche a delle guardie private, dopo il fatto di Genova non ha più alibi. Ma non si può certo pensare di “militarizzare” l’intera rete ferroviaria italiana (su cui ogni giorno viaggiano più di 8mila treni passeggeri) piazzando a bordo di ogni vagone un vigilantes, un poliziotto, un carabiniere o un parà dell’Esercito! Ed è a maggior ragione singolare che sia il governo che l’opposizione abbiano in un primo momento salutato con favore la protesta di ieri. Salvo poi vacillare vistosamente e farsi di nebbia di fronte ai disagi, per altro più che prevedibili, causati dallo sciopero con cancellazioni a ripetizione e ritardi fino a due e tre ore anche di Frecce e di Intercity. Quanti, soprattutto fra il popolo dei pendolari, avranno apprezzato questo modo di “solidarizzare” con l’intera categoria dei ferrovieri che - giustamente! - chiede di essere ascoltata e protetta? Diciamo la verità: zero. Non è certo la prima volta che ciò accade e c’è da scommettere che non sarà neppure l’ultima.
Tuttavia, a preoccupare ulteriormente è che, a un fatto di una gravità estrema come quello di Genova, il «sistema» abbia preferito rispondere in maniera sostanzialmente caotica e schizofrenica. Quasi che si preferisse evitare nuovamente di guardare in faccia la realtà nuda e cruda. La realtà di una società - la nostra - che, a forza di giustificare tutto e tutti, di galleggiare sulla negazione sistematica di ogni regola e principio anche i più elementari, su un sempre più diffuso senso di impunità, su una altrettanto generalizzata tendenza da parte delle proprie istituzioni per così dire “fondative” (prime fra tutte la famiglia e la scuola) a ritirarsi abdicandovi dalle proprie responsabilità, su una dialettica politica fatta solo di slogan e di estenuanti risse in Tv e via social e, per finire, sul contrasto divenuto ormai endemico fra i poteri dello Stato, rischia di implodere e di sprofondare su se stessa.
«Deve finire tutto ciò... non so come, ma vorrei aspettare mio marito rientrare a casa senza più batticuore!». Teniamole bene a mente, queste parole della signora Daniela. Un po’ perché sono le parole che molti di noi pronuncerebbero trovandosi al suo posto. E un po’ perché sono le uniche a consentirci di continuare a nutrire, nonostante tutto, un minimo di speranza in un tempo in cui si può rischiare di morire accoltellati solo per avere chiesto di mostrare il biglietto del treno.
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Il 12 al Regio
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