Cripta del Duomo
Quella del Duomo di Parma è una delle cripte più estese in Europa. La sua pianta corrisponde al vasto spazio superiore del presbiterio e del transetto della cattedrale, i cui pavimenti sono sorretti da un sistema di 36 colonnine, disposte più o meno fittamente, a sostegno di volte a crociera.
Nel corso dei secoli, come tutta la chiesa, anch’essa ha subito numerose trasformazioni liturgiche e decorative, a lungo studiate dal compianto mons. Alfredo Bianchi e, più recentemente, da Carlotta Taddei e Fabrizio Tonelli nel corposo saggio all’interno di un volume sugli aspetti cerimoniali e artistici dei santi vescovi patroni nelle cattedrali europee (G. Boto, I. Escandell, E. Lozano eds., “The Memory of the Bishop in Medieval Cathedrals”, Bern 2019). Se per molti la presenza a Parma di papa Pasquale II nel 1106 segna il passaggio della città dall’orbita imperiale a quella romana, non tutti concordano sull’oggetto della cerimonia di consacrazione officiata dal pontefice. Alcuni ritengono si tratti della nuova Cattedrale, altri del nuovo vescovo, Bernardo degli Uberti. Queste discrepanze delle fonti hanno spinto i due studiosi a discutere criticamente la natura dell’atto di Pasquale II e le vicende relative alla memoria del vescovo. Dopo essere stato sepolto in Duomo nel 1133, Bernardo sarà canonizzato nel 1139 dal suo successore, il vescovo Lanfranco, mediante una solenne “elevatio” delle sue spoglie, poi trasferite in un’arca di piombo nella Cripta a celebrare il santo fondatore della chiesa.
Da quando esistono le chiese cattedrali all’inizio dell’età moderna, i vescovi hanno in effetti impiegato l’arte, la letteratura e la dottrina per ideare o trasformare i templi simbolo del loro potere, prima e dopo la morte terrena, talvolta predisponendo perfino i tempi e i modi della propria futura commemorazione.
A ragione della loro ubicazione sotterranea, le cripte sono state così individuate come spazi particolarmente idonei per sepolcri o cenotafi monumentali dei vescovi antichi o recenti rilevanti nella storia della diocesi.
La continua metamorfosi di immagini e cimeli dei vescovi del Medioevo è cadenzata dall’evoluzione delle tipologie funerarie episcopali, delle cerimonie rituali e degli arredi sacri. La simbiosi di cicli figurativi, attività liturgica e disposizione spaziale nello spazio consacrato costituiva e propiziava l'esperienza di questi memoriali, al prestigio e santità dei quali ambivano affiancarsi quelle confraternite, casate illustri e corporazioni della città che ottenevano il patronato di altari o di intere cappelle.
Il continuo rivolgimento e rinnovamento della Cattedrale di Parma non fa eccezione. Nelle cappelle delle navate e della cripta la devozione e la liturgia quotidiane s’intersecano con l’ambizione di lungo periodo dei maggiorenti, che rivaleggiano nel chiamare artisti e artigiani di alto livello per decorare i propri sacelli e arredarli lussuosamente.
Nel cosiddetto Rinascimento, gli stravolgimenti politici, religiosi e sociali coinvolgono in pieno anche Parma e si riflettono in maniera peculiare nelle vicende cultuali e artistiche della sua chiesa maggiore. La frequenza delle trasformazioni censite da Taddei e Tonelli tra 1417 e 1578 nell’assetto di altari e dedicazioni nella cripta è davvero impressionante da questo punto di vista.
Negli scorsi anni è emersa un’insospettata traccia di tali incessanti allestimenti: al di là di una sottile parete muraria nel braccio Nord, con tracce di affreschi settecenteschi, si è scoperta una lunetta rinascimentale al cui centro spicca la Madonna con il Bambino affiancata dai santi Pietro e Giovanni Evangelista e dalla scena della Presentazione al tempio di Maria bambina. Per quale motivo, a differenza di tante altre decorazioni distrutte in quanto ritenute superate, questa raffigurazione sacra è stata risparmiata se non si reputava opportuno mostrarla?
A mio parere si tratta dell’attenzione devota a un’immagine che per qualche ragione andava nascosta, in quanto incompatibile con un nuovo assetto della committenza e della stessa cripta, forse anche a causa di ragioni dottrinali – ricordiamo che il Concilio di Trento impose un giro di vite sulle immagini e sui culti di età medievale talvolta sospetti di l’idolatria e superstizione.
Il timore reverenziale dovette guidare le mani dei muratori e di chi ordinò loro di costruire quel muro davanti a un’icona che pure aveva dispensato numerose grazie, a giudicare dalle tracce degli ex voto affissi con chiodini e ceralacca rinvenuti durante il restauro. Le pietre e i mattoni non sfiorarono nemmeno il dipinto e l’intercapedine sigillata ha evitato che nerofumo, pulizie invasive e ridipinture lo trasfigurassero. Sepolta in questa “tomba” da quasi cinque secoli, l’immagine risorge letteralmente per accogliere nuovi tributi devozione e ammirazione, ma si ritrova davanti uno scenario artistico totalmente mutato: l’intera abside Nord della cripta corrisponde ora alla cappella di Sant’Agnese nel suo pregevole assetto eseguito tra 1716 e 1727 in occasione della traslazione delle reliquie dei quattro santi Innocenti. Si tratta di una rarissima architettura superstite di Pietro Righini, ottimo scenografo e architetto al servizio degli ultimi Farnese. Su suo disegno Pietro Oliva rifece in marmo l’altare, l’ancona e i quattro pilastri antistanti; per l’occasione si ripulì la bella pala di Michelangelo Anselmi (1527), dove la santa titolare appare ai suoi famigliari; le volte e le pareti circostanti – compresa quella che nascondeva la lunetta della Madonna ritrovata – furono decorate dal quadraturista Giuseppe Righini e dall’eccellente figurista Sebastiano Galeotti, che vi dipinse angioletti in volo, nuovamente leggibili dopo il descialbo eseguito nel 2002-04.
Chi visiterà la Cripta nei prossimi mesi avrà dunque un’occasione per ammirare un’opera sconosciuta, apprezzarne una in genere preclusa alla vista e riscoprirne una finora trascurata.
Carlo Mambriani (Ordinario di Storia dell'architettura dell'Università di Parma)
Cosa può dire una "Madonna ritrovata" ai credenti che tornano a contemplarne il volto dopo tanti secoli? Lo sguardo è sempre personale, e ognuno saprà trarre spunto dagli infiniti dettagli dell'opera. Il mio sguardo cade sulle parole antiche dell'annunciazione: “Ave Maria gratia plena”.
“Piena di grazia” recita l’iscrizione sull’orlo del manto. C’è da restare incantati di fronte a questa parola. Grazia è amore pieno eppure lieve, inarrestabile, ma mai invadente, che incede a passo di danza, si annuncia nel canto e si rende visibile nell’arte. I lampi di rosso al collo e al braccio del Bambino ci ricordano la grazia con cui il Signore ci ha redenti. Sono il sobrio retaggio del simbolismo medievale, così distante dal dolorismo delle passioni cinematografiche. Sono forse le stille preziose del sangue di Cristo che guardano gli occhi mesti della Vergine? Quegli occhi bassi parlano ai nostri giorni: trattengono il pianto per tutti i figli e le figlie sterminati dall’odio e dalla vendetta, sfruttati, affamati, emarginati. Sono gli occhi delle madri che ancora devono vedere i figli partire per le trincee di guerre insensate, per paesi in cui tentare fortuna, per attraversare deserti e mari che spesso diventano le loro tombe. Abbiamo ancora bisogno di una Madre delle grazie a cui rivolgere una preghiera accorata per questi giorni. Domandare una grazia resta pur sempre un atto spontaneo anche in chi abbia disimparato ogni altro gesto della fede. Il nostro dipinto conserva ancora i segni di tante grazie chieste. E se oggi noi non siamo meno pronti di quei fedeli a domandare grazia, è giusto chiedersi se siamo altrettanto pronti a concederne: se presso di noi trova grazia il povero, l’affamato, il carcerato, lo straniero, le vittime della violenza e della discriminazione.
La Chiesa si accinge a celebrare il giubileo della speranza. Anche questo momento deve diventare ragione di speranza. Sappiamo meravigliarci di fronte al rispetto di fabbricieri e manovali che costruirono il muro davanti all’effigie senza rovinarla. Dovremmo essere grati anche di vivere nel tempo che ha saputo riportarla alla luce: anche oggi c’è ragione di speranza se ci rallegriamo non per un nuovo bene museale, ma per il rinnovato invito alla grazia delle beatitudini evangeliche e delle opere di misericordia.
Don Lorenzo Montenz (Responsabile Progetto culturale diocesano e canonico della Cattedrale)
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