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INTERVISTA

Sebastiano Barisoni: «Economia, rivoluzione in atto»

Top Imprese Parma, presentazione al Green Life di Crédit Agricole

Domani la presentazione di Top Imprese Parma. Barisoni: «Economia, rivoluzione in atto»

di Andrea Violi

03 Dicembre 2024, 03:01

L'economia sta affrontando un cambiamento talmente profondo che non si può parlare di crisi ma di una rivoluzione in atto. Con tante variabili che si intrecciano. Sebastiano Barisoni, vicedirettore esecutivo di Radio24, lo spiega in modo chiaro, con riferimento ai temi più «caldi» del momento. Temi che emergeranno domani, al Green Life di Crédit Agricole, durante la presentazione di Top Imprese Parma, la ricerca promossa da Unione parmense degli industriali e Gazzetta di Parma per analizzare lo stato di salute dell'economia locale attraverso i bilanci di mille imprese. Dopo l'intervento del giornalista e saggista Federico Rampini, domani Barisoni modererà la tavola rotonda «Capitani d'azienda: visioni sul futuro» e, in chiusura, intervisterà il presidente dell'Unione parmense degli industriali Gabriele Buia.

Si parla di “visioni sul futuro”. Che futuro ci aspetta?
«Abbiamo da un lato le caratteristiche del modello produttivo parmense, con la presenza di un importante gruppo bancario e di importanti gruppi con proiezioni internazionali in vari settori, dall'agroalimentare alla farmaceutica, e le sfide che sono comuni a tutti gli attori economici. Da un lato sarà importante capire quali sono i punti di forza ma anche eventuali criticità del modello produttivo parmense. Dico modello produttivo perché non mi riferisco solo alla manifattura ma anche al ruolo del mondo bancario e delle associazioni sul territorio, a partire da quelle datoriali. Dall'altro bisogna ricordarsi che in periodi come questi, in cui stiamo affrontando una enorme trasformazione di carattere strutturale (che io chiamo «rivoluzione», non crisi), nessun sistema produttivo è un'isola, per parafrasare John Donne. O per citare Papa Francesco, nessuno si salva da solo. È chiaro che un conto è analizzare le specificità di un modello territoriale come quello parmense, un altro è ricordarsi che in questo momento il cambiamento è talmente forte che bisogna vedere cosa fanno gli altri e capire le tendenze di fondo. Ecco perché sarà molto importante lo scenario che verrà delineato da Federico Rampini. Stiamo tutti navigando nello stesso mare, abbastanza tempestoso, in cui non abbiamo mappe chiare, a differenza del passato. Tant'è che molti storici economisti definiscono questo periodo “l'Età dell'incertezza”, oltre all'epoca delle crisi costanti. Nessuno ha la bacchetta magica: l'incertezza c'è per tutti i settori e territori ed è indipendente dalla grandezza d'impresa».

Ci troviamo insomma in un'incognita continua...
È tipico delle rivoluzioni industriali. Siamo alla quarta rivoluzione, dove si distruggono i riferimenti e modelli precedenti. Si guardi a cosa sta capitando nell'automotive e alla moda. Più che verso una fine della globalizzazione andiamo verso quello che l'Economist chiama “slobalization”: una globalizzazione meno forte, più rallentata. Tutto questo è un salto un po' nel buio rispetto ai modelli che ci hanno accompagnato dalla fine della Guerra Fredda: dal crollo del muro di Berlino e poi dall'ingresso della Cina nel Wto nel 2001».

La tavola rotonda con gli imprenditori di Parma sarà incentrata sui capitani d'azienda. Sono i protagonisti di questa rivoluzione?
«Quando c'è una rivoluzione da affrontare il mare è incognito per tutti. Certo che da gruppi con una forte proiezione internazionale, come quelli presenti nella tavola rotonda, ci si aspetta non la soluzione ma una percezione ancora più articolata. Chi è presente in tanti mercati, sia come vendita che come produzione, riesce a cogliere le dinamiche con sensori più alti».

Fra i grandi temi oggi in primo piano spiccano i problemi dell'automotive, da Stellantis a Volkswagen. Cosa pesa di più in questa crisi complessa? Le scelte sull'elettrico?
«Secondo me pesa molto unfattore. Anziché riconoscere l'incertezza e procedere con una navigazione a vista, quindi adattandola via via in base a ciò che si incontra, qui l'Europa ha deciso di disegnare lei stessa il futuro in maniera ideologica. Mi riferisco al 2035, alla non verifica se l'industria fosse pronta, ai costi per l'industria nella transizione, l'infrastrutturazione necessaria evocata anche da Mario Draghi... Non ha senso chiedere la fine del motore endotermico al 2035 se non c'è un percorso parallelo sulla infrastrutturazione ad esempio per le colonnine. Nel momento in cui pensi ancora di poter decidere il futuro calandolo dall'alto, con un disegno astratto - che poteva andare anche bene ma non si confronta con la realtà, i tempi e la dinamica dell'industria - il risultato è questo. Disegni un futuro distopico, che non si realizza, dove vediamo che non ci sono modelli di auto abbordabili in Europa (anche per colpa di un ritardo europeo), il mercato in questo momento è dominato dai prodotti cinesi e il consumatore che non sta rispondendo come si voleva. Insomma è la differenza fra il mondo immaginato e il mondo reale. Una differenza che sta creando il pantano in cui è finita l'industria dell'automotive».

Servirebbe un ripensamento europeo, ora?
«Nessuna industria, nessun imprenditore privato avrebbe mai deciso un cambio epocale dei modelli produttivi come questo senza fare gli studi di fattibilità. “Abbiamo gli spazi? Quanto ci costa? Quanti incentivi statali dobbiamo dare? Gli incentivi avvantaggeranno l'industria cinese o quella europea?” Invece si è decisa una data, il 2035, e non ho ancora capito perché proprio questa. A meno che non mi sia sfuggito, quello studio non l'ho visto. Ho visto fior fiore di economisti venire in trasmissione a dire: l'infrastrutturazione risulta impossibile, perché nessuno ha spiegato da dove prendere l'energia per le auto elettriche. A meno di non voler continuare a usare le centrali a gas».

Nella giornata di Top Imprese Parma si parlerà anche di Stati Uniti e situazione internazionale. Cosa pensa del pericolo dei dazi con l'arrivo di Trump?
Sarà molto utile ascoltare Federico Rampini. Da quello che vediamo, i mercati non sono così sicuri che Trump avrà una linea dura sui dazi. Molti immaginano che possa usarli come spauracchio per trattare e contrattare con l'Europa. Penso che sarà un po' diverso l'atteggiamento verso la Cina».

L'offerta di Unicredit su Bpm ha scosso il mondo economico e politico. Come evolverà questa situazione?
«Penso che quando ci sono due privati bancari, in questo caso vigilati dalla Banca centrale europea e dalla Consob, essendo ambedue quotati... la politica farebbe bene a starne fuori. La politica non può innamorarsi di modelli bancari solo perché pensa che le facciano più comodo. La politica ha l'obiettivo di vedere se operazioni di carattere anche privato su privato possono minare (da lì il Golden Power) la sicurezza del Paese - non mi sembra proprio il caso - o possono avere una ricaduta negativa sul fronte occupazionale. Ho trovato molto bizzarro il fatto che Unicredit venisse definita italiana dalla stessa politica e dallo stesso governo quando ha lanciato l'operazione su Allianz e poi viene definita non italiana quando lancia un'operazione su Bpm. Faccio notare che all'interno di Bpm il primo azionista è Crédit Agricole e Black Rock ha una quota molto importante. La politica, quindi, per esperienza tutte le volte che si è messa in mezzo al mondo bancario ha lasciato macerie, a destra e a sinistra. Dopodiché io sono per lasciare libero mercato all'interno delle regole che ci sono - quindi le regole della vigilanza europea - e della Consob per quanto riguarda la Borsa. Saranno gli azionisti a valutare l'offerta, che al momento risulta a tutti molto bassa, come valore. È inutile però continuare a chiedere campioni europei in campo bancario e non solo (e questo vale anche per i tedeschi) per fronteggiare la sfida Stati Uniti-Cina, se poi ogni volta che si cerca di fare un'operazione di fusione vengono alzate barricate nazionaliste in Germania o addirittura, come nel caso italiano, la politica si permette di auspicare altri modelli bancari».

Fra i tanti temi del periodo, anche la manovra. Confindustria chiede tra l'altro più investimenti. Su quali aspetti pensa che, alla fine, il governo potrà andare incontro alle richieste delle imprese?
«Al di là della Finanziaria che, obiettivamente, aveva margini stretti perché è la prima volta che torna in vigore il Patto di stabilità, seppur nuovo... Ci sono 6 miliardi e 400 milioni di fondi Pnrr per l'Industria 5.0, per permettere all'azienda di avere crediti d'imposta molto forti se investe in innovazione digitale e in sostenibilità ambientale. La legge è arrivata tardi. Era molto attesa dalle imprese, che paradossalmente avevano bloccato gli investimenti, nell'attesa della legge. Ma è arrivata tardi, dopo l'estate, e quasi inapplicabile per un insieme di 16 passaggi. Tant'è che su oltre 6 miliardi sono stati utilizzati circa 100 milioni. Già una politica industriale che semplificasse quella legge e la rendesse realmente utilizzabile sui fondi europei, sarebbe un segnale concreto e importante a favore delle imprese. Poi lasciamo che le imprese e gli imprenditori decidano come utilizzare quei crediti nella loro azienda».

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