Un medico al Polo sud
Si trova in quella parte di Antartide rivolta verso la Nuova Zelanda, la stazione scientifica italiana Mario Zucchelli, su una piccola penisola rocciosa affacciata sul Mare di Ross.
Aperta durante la stagione estiva (che in Antartide va da fine ottobre a metà febbraio), ospita attualmente 65 persone, tra ricercatori, ricercatrici e tecnici, della 40ª spedizione italiana attuata da Cnr, Enea e Ogs (Istituto Nazionale di Oceanografia e di Geofisica Sperimentale), nell’ambito del Programma nazionale di ricerche in Antartide Pnra.
Tra i vari partecipanti della missione, il medico, di origini pugliesi, Giovanni Paolo Santoro, che da cinque anni lavora a Parma, attualmente come direttore Uos di Chirurgia Oncologica Faringo-Laringea dell’Azienda Ospedaliera Universitaria e professore universitario a contratto.
Come è nata l’idea di questa esperienza? «Sicuramente da una voglia di conoscenza spesso tenuta a tacere, anteponendole impegni, bisogni o paure quasi mai così improrogabili o insuperabili. Alla soglia dei 50 anni, ho sentito la spinta di uscire dalla comfort zone per essere libero di mettermi alla prova. Nei miei studi classici ho sempre ammirato il mito di Ulisse, specie quando convince i suoi compagni ad oltrepassare il limite imposto da altri. I confini, i bordi, le soglie, mi attraggono. In Antartide il contatto fra mondi è in ogni angolo, anche all’interno dell’unico posto artificiale, la base, dove sei a stretto e obbligato contatto con una rappresentanza di persone di disparate provenienze, professioni, idee e passioni».
Osservatorio privilegiato del nostro pianeta, l’Antartide è una terra estrema di grande fascino, l’ultima ancora incontaminata. Dal clima alla biodiversità: questi i grandi settori di studio della spedizione. «Le missioni in queste aree si prestano a numerose ricerche, alcune portate avanti da anni con misurazioni nel campo della geologia, sismologia, geomagnetismo, climatologia e astronomia. Affascinante è il progetto internazionale di carotaggio dei ghiacci del plateau antartico con l’obiettivo di prelevare il ghiaccio, formatosi un milione di anni fa, per ricavare informazioni sui cambiamenti di temperatura e composizione dell’atmosfera. Molto interessante è anche la ricerca sul microbiota su una popolazione umana isolata, come siamo noi partecipanti alla missione».
Un viaggio impegnativo che richiede, ancora prima della partenza, una particolare e rigorosa preparazione. «I neofiti ricevono una seria preparazione di una settimana al Centro Ricerche Enea di Brasimone. La parte teorica prevede lezioni sull’Antartide, su legislazione e aspetti ambientali e logistici della missione. La parte pratica consiste nel saper gestire, simulando possibili scenari, un'emergenza sanitaria ed eventi a rischio. La seconda parte del corso prevede il trasferimento a La Thuile, dove le guide alpine insegnano arrampicata su roccia e ghiaccio e dove viene allestito un campo sul ghiacciaio del Monte Bianco. I candidati idonei dovranno infine superare prove psico-attitudinali e mediche presso gli Istituti di Medicina Aerospaziale di Roma o Milano».
Cosa significa vivere e lavorare in condizioni così estreme all’essere umano? «Sicuramente, aumentano i rischi. In questo contesto vengono adottate misure di prevenzione molto rigide per prevenire incidenti e infortuni. Il clima, l’ambiente e l’isolamento dal mondo civilizzato, impongono che le attività vengano programmata meticolosamente. L’equipe sanitaria è composta da due medici (solitamente, un anestesista e un chirurgo) e un infermiere. L’attività che svolgiamo è molto diversa da quella in ambito ospedaliero. Dobbiamo fare del nostro meglio con le attrezzature e i presidi disponibili. Le patologie che si riscontrano più frequentemente sono traumatismi, piccole ferite, patologie delle prime vie aeree e oculari dovute ad un’aria particolarmente secca e al vento forte che facilitano l’insorgenza di infiammazioni di naso, gola e occhi. Poi, c’è l’attività di visite preventive prima di svolgere particolari mansioni».
Come si scandisce una giornata in Antartide? «Il tempo ha una valenza diversa perché abbiamo luce solare ventiquattro ore al giorno. La giornata è scandita dai pasti nell’area mensa. Dopo il briefing del mattino, sappiamo se è prevista attività programmata dove occorre assistenza medica, come le immersioni o le missioni in luoghi particolarmente rischiosi. Noi sanitari siamo sempre reperibili per qualsiasi evenienza».
Che tipo di sensazioni si provano a vivere a queste latitudini? «Qui tutto è estremo. Il viaggio è lungo e faticoso, da Roma a Dubai sino a Sydney, poi i voli su mezzi sempre più piccoli fino ad arrivare alla base italiana. Qui, il bianco accecante e i silenzi ti neutralizzano e ti ripuliscono da sovrastrutture inutili. Di questa esperienza annoto quasi giornalmente delle riflessioni sul profilo Instagram @otorinolaringoantartide che può seguire chi volesse farsi un’idea più approfondita. Ci tengo a ringraziare il mio direttore, professor Enrico Pasanisi, e tutta la direzione dell’Ospedale per avermi permesso di partecipare alla missione, comprendendo come questa potesse arricchirmi da un punto di vista professionale ma soprattutto umano».
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