Miniserie
Ha un volto meravigliosamente «antico» Maria Vittoria Dallasta, che pare uscito da un film di Alice Rohrwacher: «Il mio sogno sarebbe lavorare con lei, ma non ho fretta… L’importante è che succeda», racconta l’attrice parmigiana classe 2003, che si divide tra Parma, Roma e Milano, dove segue un percorso intensivo di alta formazione con registi, sceneggiatori e attori del Piccolo: «L’idea è di aprirmi anche la via al teatro», spiega. Dopo un 2024 di svolta per la sua carriera, il nuovo anno inizia alla grande con la miniserie «Leopardi-Il poeta dell’infinito» di Sergio Rubini (stasera e domani in prima serata su Rai1), in cui interpreta Paolina, la sorella di Giacomo.
Che rapporto avevi con Leopardi da studentessa del Romagnosi?
«Mi ha sempre affascinato molto, anche per quello che Sergio ha voluto sottolineare: è vero che il pensiero di Leopardi si può ricostruire con le tre fasi del pessimismo, però il suo punto di partenza è stata la sua fame per la vita. Grazie ai miei studi al classico ero preparatissima sull’autore, ma ho avuto la possibilità di abitare in casa sua e di “viverlo” attraverso la sorella. Quando tornava a Recanati, nei suoi periodi di infermità, era Paolina a fare la copista per lui. E Giacomo teneva molto al suo parere».
Ecco, come sei “diventata" Paolina?
«Mi sono divorata tutto il loro epistolario. Giacomo scrive alla sorella: "Voi che siete sensibilissima, che sapete amare, che siete istruita al di sopra dei 4/5 delle vostre pari". Ho pensato subito: "Qui c'è la mia Paolina”. Rubini poi ci rileggeva alcuni spezzoni prima delle scene. È un poeta, come essere umano e anche nel modo di dirigere».
È un’altra grande produzione in costume.
«Sono stata fortunata perché ho fatto “Gloria!” e “Leopardi” nel giro di un anno, praticamente sono passata da un corsetto all’altro (ride). Cambiavano un pochino, da settecenteschi a ottocenteschi, ma il modo di respirare era quello. Poi Paolina tiene le mani sulla pancia, sui fianchi per darsi una compostezza e mi ricordo che ogni tanto mi accorgevo che facevo lo stesso anche mesi dopo. È la memoria muscolare».
È passato quasi un anno dall’anteprima mondiale dell’opera prima di Margherita Vicario alla Berlinale: quanto ti ha cambiato la vita?
«Tantissimo, è stato un momento cruciale: ho fatto i provini quando avevo la maturità, ho compiuto vent’anni sul set. Quindi “Gloria!” è stato un po' l’ingresso nell'età adulta, un film di passaggio in tutti i sensi. Ho una gratitudine infinita nei confronti di Margherita e per Galatéa (Bellugi), Carlotta (Gamba), Sara (Mafodda) e Veronica (Lucchesi). Sono figlia unica, ho acquisito delle sorelle».
Pensando anche a «Genoeffa Cocconi: i miei figli, i fratelli Cervi» di Marco Mazzieri, stai percorrendo un filone di cinema che si concentra spesso sul femminile.
«Finora ho sempre preso parte a progetti che avevano una risonanza molto profonda in me. In quel film poi c’è un dialogo del mio personaggio con Genoeffa, ma è lei che viene nella contemporaneità, perché non c'è passato, presente o futuro quando si parla del coraggio e delle lotte per la libertà, l’emancipazione, la democrazia».
Il miglior consiglio che ti è stato dato?
«Mi è rimasta molto impressa una frase di Margherita: “Un attore è il suo corpo”. Ho cominciato professionalmente a 15 anni, con tutte le insicurezze di qualsiasi adolescente. E lei mi ha dato quell’incoraggiamento: l’idea di valorizzarmi e usare le mie caratteristiche per rendermi unica».
Sogniamo in grande: a parte Alice Rohrwacher, con chi vorresti lavorare?
«Hai detto in grande? Allora dico Martin McDonagh, Paul Thomas Anderson e Damien Chazelle. Sì, mi piacerebbe fare anche un musical».
Benedetta Bragadini
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